
Nel corso del primo incontro della serie I giovedì del San Camillo Cuore, che si è tenuto il 3 novembre a Roma, il cardiologo dell’Ospedale San Camillo Geza Halasz, ha presentato un interessante caso clinico focalizzato sulla valutazione funzionale con test da sforzo cardiopolmonare (CPET) e il relativo miglioramento della performance associato al trattamento con tafamidis in un soggetto con amiloidosi cardiaca da transtiretina.
Halasz ha subito sottolineato l’importanza dell’assessment della capacità funzionale nello scompenso cardiaco a frazione di eiezione preservata, evidenziando come la rilevazione del picco di pO2 consenta di analizzare moltissimi aspetti clinicamente utili. Un’indagine che può assumere un valore significativo anche nell’amiloidosi cardiaca, proprio per il carattere sistemico della malattia. Tuttavia, come ha precisato il cardiologo, “nonostante la sua importanza, dimostrata anche dagli studi di Donna Mancini nello scompenso cardiaco a frazione di eiezione ridotta, la valutazione della capacità funzionale non rientra ancora negli algoritmi prognostici in caso di amiloidosi”.
Halasz ha ricordato infatti che sono ancora pochi gli studi in cui è stata valutata anche la capacità funzionale nei pazienti con amiloidosi cardiaca. Citandone alcuni dove era stato effettuato questo tipo di assessment – non con il test da sforzo cardiopolmonare ma con il six minute walking test – il cardiologo ha sottolineato come tafamidis abbia un effetto positivo anche sulla capacità funzionale dei pazienti. “Tafamidis ha aumentato la capacità funzionale in termini di metri molto prima rispetto alla riduzione delle ospedalizzazioni e della mortalità, dopo sei mesi il paziente andava già meglio”, ha commentato.
Halasz è poi entrato nel merito del suo intervento, presentando i casi clinici di due uomini con più di sessant’anni di età: uno con amiloidosi da transtiretina wild-type in classe NYHA II e in terapia con tafamidis, furosemide e luvion e l’altro affetto da cardiomiopatia ipertrofica non ostruttiva mutata, in terapia con metoprololo. Sotto il profilo ecocardiografico entrambi i soggetti presentavano disfunzione diastolica e un’ipertrofia paragonabile, avevano alte pressioni di riempimento, non presentavano ipertensione polmonare e il ventricolo destro a riposo funzionava in tutti e due i casi. Entrambi i pazienti sono stati sottoposti quindi anche a test cardiopolmonari e stress test per valutare il picco di pO2, la VE/VCO2 e il picco di RER.
“Il picco di pO2 rappresenta la nostra massima cilindrata – ha sottolineato il cardiologo – quanto il nostro motore è in grado di consumare a picco; la VE/VCO2 è una misura della nostra efficienza ventilatoria e della abilità del riflesso chemorecettoriale, ovvero quanto è allenato e quanto funziona bene; il picco di RER, invece, ci dice se un paziente essenzialmente ha fatto dell’esercizio massimale oppure no”, ha chiarito Halasz. “Il test cardiopolmonare è importante perché ci consente di studiare tutti i meccanismi che possono determinare una disfunzione nello scompenso cardiaco: sono coinvolti il polmone, il cuore, l’aspetto ematologico, quello vascolare e il mitocondrio”.
Il test ha mostrato che il paziente con amiloidosi cardiaca da transitiretina wild-type aveva, prima di assumere tafamidis, un VE di picco al 44%, 10 ml/min/kg – “quasi da trapianto”, per Halasz – e una VE/VCO2 slope a 37, “risultando inefficiente dal punto di vista ventilatorio”. Inoltre, visto che presso l’Ospedale San Camillo i test di imaging e la CPET vengono effettuati insieme, sono stati presi in esame anche i dati ecocardiografici, i quali hanno evidenziato una disfunzione diastolica importante, sia a riposo che da sforzo, e soprattutto un uncoupling tra funzione ventricolare destra e circolo polmonare. “Caratteristica dell’amiloidosi era la sua heart rate reserve del 50% – ha indicato il cardiologo – che è scarsissima nonostante la terapia betabloccante. Il paziente non riusciva ad aumentare lo stroke volume. Chi ha una disfunzione diastolica deve aumentare lo stroke volume con l’heart rate, ma il paziente non ci riusciva e si bloccava”.
Il paziente con cardiomiopatia ipertrofica non ostruttiva, invece, aveva solo una lieve limitazione allo sforzo, arrivando al 77%. Il suo VO2/Watt, che misura l’efficienza cardiocircolatoria, si attestava su 12,4 mentre nel paziente con amiloidosi si attestava a 8. Nonostante la disfunzione diastolica, la sua VE/VCO2slope era 21,4, “praticamente normale”, ha commentato Halasz. E lo stesso discorso vale per la sua heart rate reserve, che si attestava al 77%. Questo paziente, inoltre, non presentava un uncoupling del ventricolo destro. Quindi, come sottolineato dal medico, ciò che risulta subito evidente dal confronto dei due casi clinici è che nel primo siamo in presenza di una malattia che coinvolge tutto l’organismo mentre nel secondo la patologia interessa primariamente il cuore. Dal punto di vista della capacità funzionale, infatti, i pazienti con cardiomiopatia ipertrofica hanno in genere una performance discreta.
Il paziente con amiloidosi cardiaca ATTRwt ha poi iniziato a seguire la terapia con tafamidis ed è stato sottoposto a un test cardiopolmonare dopo sei mesi, il quale ha rilevato un miglioramento della capacità funzionale. Il pO2 di picco è passato dal 44 predetto al 51 predetto mentre il suo VO2peak in ml/kg/min era tra 10 e 12: “Per arrivare a 10 ml/min/kg – ha illustrato Halasz – il paziente ha fatto un RER di 1,30, per arrivare a 12 ha fatto un RER di 1,22”. Il cardiologo ha quindi ricordato che durante l’esercizio fisico l’organismo consuma una miscela di grassi e zuccheri: “Un soggetto che fa un RER di 1,30 sta consumando tutti gli zuccheri, cioè non consuma più il grasso ed è inefficiente, mentre quando fa un RER di 1,22 comincia a bilanciare un po’ di più la situazione, diventando più efficiente e performante”.
Negli studi, come ha poi sottolineato Halasz, si sostiene che il six minute walking test sia una scelta migliore del test cardiopolmonare perché meno costoso e submassimale, avvicinandosi di più alla realtà di un paziente con l’scompenso cardiaco a frazione di eiezione ridotta. Tuttavia, prendendo a riferimento proprio il caso clinico del paziente con amiloidosi ATTRwt, il cardiologo ha sottolineato che “valutando determinati indici con il CPET, come il VO2 di picco, se un paziente risulta più efficiente e, per esempio, la sua soglia anaerobica è passata al 43%, si può concludere che è diventato molto più efficiente anche dal punto di vista submassimale”.
Il valore prognostico del picco di pO2, inoltre, è stato messo in evidenza anche in uno studio coordinato da Michele Emdin, direttore dell’UOC di Cardiologia della Fondazione Toscana “Gabriele Monasterio” di Pisa, con un focus sulla capacità funzionale. “Questo studio – ha spiegato Halasz – ci dice che il picco di pO2 è addirittura superiore al Mayo clinic score nel predire la prognosi. Quindi, in teoria, potremmo stratificarla solo con il picco di PO2 e il circulatory power, che è un altro indice”. Nel caso del paziente preso in esame da Halasz, quindi, tafamidis ha dimostrato di avere un impatto positivo anche sulla capacità funzionale: “In pratica siamo riusciti a far passare il paziente da una curva ad altissima mortalità a una curva a mortalità più bassa – ha commentato il cardiologo – quindi tafamidis ha effettivamente funzionato”. Per Halasz il CPET è sempre utile nell’amiloidosi, dall’early clinical fino all’early stage heart failure. Nel primo caso perché consente di valutare alcuni indizi che sono caratteristici dell’amiloidosi, nel secondo perchè permette di valutare trapianto, prognosi e altri aspetti.
“Il nostro paziente non aveva una neuropatia periferica né un coinvolgimento autonomico, però con il CPET abbiamo visto che la sua VE/VCO2, la sua PET(CO2) aumentavano molto di più del paziente con cardiomiopatia ipertrofica, sebbene le pressioni di riempimento fossero le stesse. Ciò significa che il paziente a livello mitocondriale era molto meno efficiente e che il suo riflesso chemorecettoriale, per via della disfunzione autonomica, funzionava molto male”.