
Storicamente il Congresso Nazionale dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO) riserva sempre uno o più spazi al tema dell’amiloidosi cardiaca. Anche l’edizione di quest’anno, svoltasi dal 27 al 29 agosto al Palacongressi di Rimini ma seguibile anche da remoto, non è stata da meno, con diverse sessioni che hanno affrontato le novità più recenti – in termini di caratteristiche cliniche, diagnosi e trattamenti – nell’ambito di questa patologia. Nel corso della seconda giornata congressuale, ad esempio, si è tenuto il simposio “Amiloidosi cardiaca: vecchia malattia, nuove evidenze”, moderato da Luigi Aquilanti dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona e da Marco Botta dell’Ospedale San Paolo di Savona, che ha visto la partecipazione di alcuni dei maggiori esperti nazionali sul tema dell’amiloidosi cardiaca.
Il primo relatore – Michele Emdin, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Cardiologia e Medicina cardiovascolare della Fondazione Toscana “Gabriele Monasterio” di Pisa – ha descritto i vari gradi di coinvolgimento cardiaco nelle diverse forme di amiloidosi. “Trattandosi di una malattia sistemica l’approccio diagnostico non è semplice – ha esordito Emdin –, richiede una conoscenza dell’oggetto e una collaborazione multispecialistica”. Le forme più comuni, ha ricordato, sono l’amiloidosi AL, da catene leggere, e l’amiloidosi da transtiretina wild type o senile.
“Le due forme hanno in comune un impatto importante sulla prognosi, che oggi può essere modificato da trattamenti disease modifying”. Oltre a questo, l’amiloidosi AL e ATTR condividono un iniziale quadro di scompenso cardiaco a frazione di eiezione preservata, la presenza di disturbi del ritmo e della conduzione, alterazioni a livello di biomarker cardio-specifici, bassi voltaggi all’esame ECG, pseudo-ipertrofia all’ecocardiogramma e alla risonanza magnetica e una biopsia positiva al rosso Congo. “Oggi abbiamo la possibilità di differenziare le due forme attraverso l’utilizzo di una scintigrafia con difosfonato e in futuro con l’utilizzo di PET con fluorbetaben”, ha sottolineato Emdin.
Proprio qualche settimana fa, infatti, il gruppo di ricerca guidato dal cardiologo della Fondazione Toscana “Gabriele Monasterio” di Pisa ha pubblicato su JACC Cardiovascular Imaging un lavoro in cui metteva in evidenza la capacità di un esame PET con fluorbetaben, radiotracciante sviluppato originariamente per visualizzare le placche β-amiloidi a livello cerebrale, di differenziare tra le dure varianti. “È un passo avanti importante perché al momento nell’amiloidosi AL per iniziare il trattamento chemioterapico è necessaria una biopsia miocardica, mentre l’utilizzo generalizzato di questa tecnica potrebbe evitare questo passaggio”, ha spiegato Emdin.
L’intervento successivo è stato quello di Antonella Moreo, Responsabile dell’Unità di Cardiologia diagnostica per immagini dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano, la quale ha affrontato il tema dell’imaging nell’ambito dell’amiloidosi cardiaca. In particolare, Moreo ha spiegato come questo tipo di esami venga utilizzato per fini diagnostici ma anche per la stratificazione prognostica e il monitoraggio degli effetti delle terapie, attraverso la ricerca delle alterazioni tipiche dell’amiloidosi cardiaca a livello miocardico, valvolare ed eventualmente pericardico.
“L’ecocardiografia è sicuramente il primo step – ha spiegato Moreo – e dev’essere un’ecocardiografia completa, con tutte le informazioni che la metodica ci può dare”. Attraverso questo esame è possibile rilevare indizi di natura morfologica, come l’aumento degli spessori di parete, l’iperiflettenza miocardica, la dilatazione delle cavità atriali, l’ispessimento del setto interatriale e degli apparati valvolari e il versamento pericardico. Per quanto riguarda gli aspetti funzionali, invece, attraverso l’ecocardiografia è possibile identificare una disfunzione diastolica con fisiologia di riempimento restrittivo, una frazione di eiezione conservata, un basso stroke volume, una ridotta portata cardiaca e una disfunzione sistolica regionale.
“La risonanza magnetica cardiaca ci dà un valore aggiunto”, ha poi spiegato Moreo. In particolare, in aggiunta all’elevata qualità delle immagini (indipendente dalla finestra acustica), questo esame permette di ottenere informazioni fondamentali in termini di caratterizzazione tissutale. “Utilizzando un contrasto osserveremo un late gadolinium enhancement diffusamente presente a livello subendocardico o con estensione variabile a livello intramiocardico o transmurale e un’alterata cinetica di wash out del contrasto, che risulta molto rapido”. Recentemente, poi, si sono aggiunte nuove sequenze, come quelle T1 mapping, che permettono di individuare caratteristiche specifiche, come valori di T1 mapping nativo molto elevati e valori di ECV molto elevati. Infine, come accennato da Emdin nella relazione precedente, grazie alla scintigrafia ossea è possibile differenziare l’amiloidosi ATTR dalle altre forme di cardiopatia restrittiva/ipertrofica, mentre nel prossimo futuro i nuovi traccianti miocardici permetteranno di differenziare tra le diverse forme di amiloidosi AL.
[su_lightbox type=”image” src=”https://cardioinfo.it/wp-content/uploads/2020/09/Amiloidosi-ANMCO-Figura.jpg”]
Figura modificata da: Moreo A. L’imaging nell’amiloidosi: non solo eco. ANMCO Digital 2020, 28 settembre 2020.
Nella relazione successiva Aldostefano Porcari dell’Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti” di Trieste ha parlato dei vantaggi offerti, nell’ambito dell’amiloidosi, dalle analisi genetiche. “Sostanzialmente, un test genetico serve a differenziare la malattia acquisita nel corso della vita per il fallimento dei sistemi biologici da una malattia ereditaria, con importanti risvolti in termini di diagnosi e di gestione”, ha sottolineato. Per questo motivo secondo il cardiologo tutti i pazienti affetti da questa patologia dovrebbero essere sottoposti a screening genetico. “Questo approccio ha prodotto un cambiamento nell’epidemiologia della malattia – ha spiegato – perché sta cambiando la nostra sensibilità nei confronti di questa condizione”.
Porcari ha quindi concluso la sua relazione mettendo in evidenza i vantaggi associati all’impiego dei test genetici nell’ambito dei pazienti con amiloidosi. Per quanto riguarda la diagnosi, ad esempio, questi esami potrebbero essere utilizzati per identificare quel 2% di pazienti che sfugge all’algoritmo diagnostico proposto da Gilmore. Per quanto riguarda la terapia, invece, una maggiore comprensione degli aspetti genetici della patologia potrebbe portare in futuro a nuovi trattamenti. “La prognosi è un altro grande punto – ha concluso -, adesso i biomarker rappresentano la base della stratificazione prognostica ma è irragionevole credere che siano l’unico fattore importante. Dobbiamo spostarci versono una valutazione multi-parametrica dei nostri pazienti, che tenga in conto il background genetico, i dati di ecocardiografia, di scintigrafia, di risonanza, di istologia, di PET e di tutto ciò che ancora dobbiamo scoprire”.
Nell’ultima relazione, infine, Claudio Rapezzi del Dipartimento di Morfologia, chirurgia e medicina sperimentale dell’Università degli Studi di Ferrara ha offerto una panoramica dei nuovi trattamenti per l’amiloidosi cardiaca, soffermandosi in particolare sulla forma ATTR. “Fino a 15 anni fa fare una diagnosi di amiloidosi cardiaca serviva a ben poco – ha spiegato – mentre negli ultimi anni le cose sono radicalmente cambiate. Adesso fare una diagnosi esatta e in tempi giusti di amiloidosi da transtiretina ha una ricaduta importantissima: quella di mettere in atto una terapia che molte volte è disease modifying”.
Il tema dei trattamenti per l’amiloidosi cardiaca è stato trattato anche nel corso di altre sessioni del Congresso ANMCO. In una di queste, ad esempio, Andrea Lenarda, Direttore del Centro Cardiovascolare dell’Azienda Ospedaliero Universitaria “Ospedali Riuniti” di Trieste, ha ribadito come fino a pochi anni fa non esistessero terapie per questa patologia. “C’era il trapianto di fegato, con tutte le difficoltà che comportano i trapianti: la reperibilità dell’organo, l’età dei pazienti, la terapia immunosoppressiva, in aggiunta all’inutilità di questo tipo di approccio in forme quali l’amiloidosi da transtiretina wild type”. Anche dal suo punto di vista i recenti sviluppi e le nuove prospettive in campo terapeutico offrono invece nuove speranze per questi pazienti, con trattamenti specifici in grado di impattare in modo significativa sulla loro storia clinica.
Fabio Ambrosino