
“Un incontro caratterizzato dalla presenza di veri e propri ‘top player’ del settore”. Si è aperto con queste parole di Manlio Cipriani, cardiologo dell’Ospedale Niguarda di Milano – in veste di moderatore insieme a Andrea di Lenarda del Centro Cardiovascolare di Trieste – il simposio “La sfida degli Arni: a patient oriented therapy” tenutosi il 24 settembre nel corso del 53° Convegno Cardiologia a Milano. Ad alternarsi sul palco principale dell’evento organizzato dalla Fondazione A. De Gasperis, infatti, sono stati alcuni dei maggiori esperti nel campo dello scompenso cardiaco.
Il primo a intervenire è stato Gianfranco Sinagra, direttore della Struttura Complessa di Cardiologia degli Ospedali Riuniti di Trieste, il quale ha parlato delle fasi dello scompenso cardiaco in cui è preferibile iniziare il trattamento con sacubitril/valsartan. Il cardiologo ha prima di tutto messo in evidenza la natura dinamica della sindrome, sottolineando come in questo setting clinico siano sempre presenti rischi di progressione biologica, di insorgenza di nuove componenti cardiovascolari ed eventi, di ospedalizzazioni, di morte, di progressione del danno d’organo e di eventi avversi alle terapie.
“Questa non è una visione pessimistica – ha spiegato Sinagra – ma è legata al fatto che non è possibile guarire dallo scompenso cardiaco, quindi dovremmo vedere il paziente come un soggetto che, anche in apparente stato di benessere, ha una serie di rischi residui”. Per questo motivo, secondo il cardiologo, l’introduzione degli ARNI ha rappresentato, dopo vent’anni di relativa stasi, un cambiamento epocale nel trattamento dei pazienti con scompenso, per la loro capacità di ridurre notevolmente il rischio di eventi.
Ma in quale fase di malattia iniziare il trattamento? In sintesi, secondo Sinagra il paziente che può beneficiare di questa terapia è quello affetto da una cardiopatia sintomatica. “E in questa categoria – ha spiegato – va incluso anche chi è stato in classe NYHA II o ha avuto un’ospedalizzazione per poi passare a una classe NYHA più bassa. Perché, anche se si è riusciti a riportarlo in una condizione di relativo benessere, è la classe da cui è transitato che esprime il burden di rischio che il paziente corre in termini di ri-ospedalizzazione”.
Sinagra ha poi commentato i risultati dello studio PARAGON-HF relativi ai soggetti con frazione di eiezione preservata, presentati recentemente dal Congresso dell’European Society of Cardiology, i quali, dal suo punto di vista, rischiano di “essere archiviati un po’ sommariamente” (1). Infatti, come ha fatto notare il cardiologo, “nei pazienti del sottogruppo caratterizzato da una frazione di eiezione inferiore alla mediana (57%) è emerso un beneficio, quindi anche nell’ambito del mid-range heart failure con valori della frazione di eiezione che tendono al 40/45% gli ARNI mantengono una certa efficacia”.
Di conseguenza, per rispondere alla domanda che intitolava la sua relazione – “ARNI: in quale fase iniziare?” – Sinagra ha concluso che il momento migliore per avviare la terapia è “il prima possibile, per la capacità del trattamento con sacubitril/valsartan di ridurre mortalità e ospedalizzazioni. Questo soprattutto per quanto riguarda i pazienti in classe NYHA II o III e con una frazione di eiezione inferiore al 35%, ma è giusto mantenere una certa apertura mentale anche nell’ambito delle classi I e IV e delle frazioni di eiezione comprese tra il 35% e il 45%”.
L’intervento successivo è stato quello di Marco Metra del Dipartimento di Specialità Medico-Chirurgiche, Scienze Radiologiche e Sanità Pubblica dell’Università di Brescia, che ha descritto i vantaggi ottenibili iniziando la terapia con gli ARNI già durante l’ospedalizzazione del paziente. Riprendendo un lavoro pubblicato nel 2015 da Greene e colleghi su Nature Reviews Cardiology, Metra ha ricordato come una delle fasi dello scompenso cardiaco in cui la mortalità è più elevata sia proprio quella immediatamente successiva all’ospedalizzazione (2). “Un incremento del rischio, questo, che è massimo nella fase post-dimissione e che è proporzionale sia al numero delle ospedalizzazioni precedenti che alla durata delle stesse”, ha commentato.
“L’ospedalizzazione non rappresenta però solo un rischio – ha continuato Metra – ma è anche un’eccellente occasione, forse la migliore che abbiamo, per ottimizzare la terapia dei pazienti”. Riportando i dati dei vari trial che hanno analizzato gli effetti di un approccio terapeutico iniziato nei pazienti ospedalizzati – dal trial OPTIMIZE-HF sull’impiego dei betabloccanti agli studi TRANSITION e TITRATION relativi all’impiego degli ARNI – ha quindi fatto notare come “l’inerzia terapeutica, molto applicata nei pazienti ambulatoriali, non ha ragione di esistere nei pazienti ospedalizzati. L’ospedalizzazione vuol dire che qualcosa è cambiato nella storia naturale del soggetto ed è quindi necessario ottimizzare la terapia”.
Inoltre proprio da una sottoanalisi dello studio TRANSITION è emerso che, distinguendo tra diagnosi di scompenso cardiaco de novo e diagnosi precedenti, le prima rappresentano un momento particolarmente favorevole per iniziare la terapia perché i pazienti hanno un livello di rischio inferiore ed è quindi maggiore la probabilità di riuscire a raggiungere e mantenere la dose target. “Di conseguenza – ha concluso Metra – la fase pre-dimissione rappresenta il momento ideale sia per ottimizzare la terapia diuretica che per iniziare i trattamenti che si associano a un miglioramento della prognosi. Le maggiori efficacia e tollerabilità di sacubitril/valsartan rispetto a enalapril sono confermate quando la terapia è iniziata durante l’ospedalizzazione e anche nei pazienti con scompenso cardiaco di recente insorgenza”.
L’ultimo intervento è stato quello di Claudio Rapezzi, direttore dell’Unità Operativa di Cardiologia del Policlinico S.Orsola-Malpighi di Bologna, il quale ha elencato le ragioni per cui la terapia con ARNI rappresenta una cosiddetta patient-oriented therapy. “Si tratta di un farmaco – ha iniziato – che non agisce solo sul problema acuto del paziente con scompenso cardiaco ma che va a incidere sulla biologia generale della malattia”.
Rapezzi ha quindi descritto quelli che dal suo punto di vista sono i quattro principali motivi sottostanti l’inerzia di alcuni medici a prescrivere un trattamento con ACE-inibitori piuttosto che affrontare lo shift agli ARNI: l’idea che quest’ultimi siano destinati a una minoranza dei pazienti con scompenso cardiaco, la mancata comprensione dei meccanismi molecolari associati alla somministrazione di sacubitril/valsartan, la mancanza di tempo da dedicare alle visite ambulatoriali necessarie a effettuare lo shift e, infine, le indicazioni delle linee guida che raccomanderebbero di non cambiare protocollo terapeutico in pazienti il cui stato di salute non peggiora.
Il cardiologo del Policlinico S.Orsola-Malpighi ha quindi dimostrato, portando a supporto della sua tesi le evidenze provenienti dai trial PARADIGM-HF, TITRATION e PARAGON-HF, come dietro a ognuno di questi fattori ci sia in realtà un’incomprensione o un ostacolo agilmente superabile. Commentando i risultati del trial PARAGON-HF, ad esempio, Rapezzi ha spiegato come la loro interpretazione statistica sia dipesa da una cosiddetta “trappola nosografica”: “Se abbiamo la pretesa di utilizzare un descrittore fisiopatologico (frazione di eiezione preservata) per accomunare pazienti che hanno condizioni fenotipiche di malattia completamente diverse, sbagliamo. E non perché il farmaco non funzioni o non sia valido, ma perché abbiamo commesso un errore in fase di arruolamento”.
Infine, Rapezzi ha fatto notare come analizzando i dati di sopravvivenza relativi al trattamento con sacubitril/valsartan in senso orizzontale – e quindi in termini di guadagno effettivo associato all’approccio terapeutico – si noti che il trattamento con sacubitril/valsartan risulti associato a un aumento di sopravvivenza medio di 1,3 anni (in alcuni casi di oltre 2 anni) rispetto ai pazienti trattati con enalapril. “Al paziente interessa poco sapere che il suo rischio relativo di mortalità è ridotto del 25% – ha concluso – vuole sapere quanto più a lungo potrà vivere”.
Fabio Ambrosino
▼1. Solomon SD, McMurray JJV, Anand IS, et al. Angiotensin–Neprilysin Inhibition in Heart Failure with Preserved Ejection Fraction. New England Journal of Medicine 2019; DOI: 10.1056/NEJMoa1908655.
2. Greene SJ, Fonarow GC, Vaduganathan M, et al. The vulnerable phase after hospitalization for heart failure. Nature Review Cardiology 2015; 12(4):220-9.