
1. Gli inibitori di PCSK9 entrano nel mondo reale
Il 2015 ha visto l’approvazione da parte della Food and Drug Administration (FDA) degli anticorpi monoclonali, che si sono dimostrati estremamente efficaci nel conseguire una riduzione della colesterolemia LDL. Come ampiamente dimostrato, l’aumento del rischio cardiovascolare è direttamente proporzionale all’aumento dei livelli di colesterolo LDL e un’ampia percentuale di pazienti in trattamento con statine non riesce a conseguire i valori target di LDL raccomandati dalle linee guida (<70 mg/dl). Numerosi inibitori di PCSK9 sono in fase di sviluppo, ma le maggiori evidenze oggi disponibili provengono dagli studi di fase II e III condotti con alirocumab ed evolocumab, entrambi approvati anche in Europa dalla European Medicines Agency (EMA). In particolare, i dati del programma ODYSSEY presentati dapprima all’AHA 2014 e successivamente all’ESC 2015, hanno documentato la capacità di alirocumab di ridurre i livelli di colesterolo LDL con un ottimo profilo di sicurezza, anche nei pazienti affetti da ipercolesterolemia familiare, una delle forme di dislipidemia più pericolose dovuta a mutazioni di uno o più geni. Studi ancora in corso con follow-up a lungo termine potranno confermare la sicurezza di questa innovativa classe di farmaci e fornire ulteriori informazioni in termini di costo-efficacia.
2. SPRINT: lower is better?
La riduzione della pressione arteriosa sistolica a valori inferiori di quelli attualmente raccomandati (120 vs 140 mmHg) conferisce un beneficio aggiuntivo ai pazienti ipertesi, che si traduce in una minore incidenza di eventi cardiovascolari maggiori fatali e non fatali e una minore mortalità da ogni causa, a fronte tuttavia di un aumento di alcuni eventi avversi, come sincope, danno renale e alterazioni dell’equilibrio elettrolitico. Questi sostanzialmente sono i risultati dello studio SPRINT, la cui applicabilità dovrà essere validata nel mondo reale per verificare se i benefici di una terapia antipertensiva più aggressiva siano realmente superiori ai rischi.
3. Semaforo verde per caffè e consumo di grassi, ma con moderazione
L’ipotesi avanzata da Ancel Keys che il consumo di grassi sia la principale causa nutrizionale delle malattie cardiovascolari aveva portato ad introdurre nel 1970 la raccomandazione di ridurre l’apporto giornaliero di grassi a meno del 30% e quello di grassi saturi a meno del 10% (o a quantità ancora più restrittive se si considera la dieta mediterranea). Da allora, tuttavia, nessuno studio sembra confermare la necessità di mantenere una sana alimentazione entro questi rigorosi confini, tanto da indurre l’emanazione di nuove raccomandazioni (PDF: 11 Mb) che pongono l’accento sulla tipologia piuttosto che sulla quantità di grassi assunti nella dieta e consentono un moderato consumo di caffeina – ma attenzione alle calorie derivanti dall’aggiunta di latte, creme e zucchero!
4. Importanza della modificazione dei fattori di rischio nella fibrillazione atriale
Tre studi sanciscono definitivamente l’importanza della correzione dei fattori di rischio nel trattamento dei pazienti con fibrillazione atriale: CARDIO-FIT e LEGACY dimostrano che la perdita di peso nei soggetti obesi si associa ad una significativa riduzione del “burden” di fibrillazione atriale e al mantenimento del ritmo sinusale, mentre ARREST-AF Substrate evidenzia che un intervento intensivo sui fattori di rischio favorisce il rimodellamento inverso elettrico e strutturale, oltre ad un miglioramento della funzione endoteliale e piastrinica.
5. Inibitori di SGLT-2: prima dimostrazione di ridotta mortalità nella lotta contro il diabete
Per la prima volta è stata documentata una riduzione della mortalità con un farmaco antidiabete: nello studio EMPA-REG OUTCOME, i pazienti con diabete di tipo 2 trattati con empagliflozin, un inibitore di SGLT-2 (co-trasportatore sodio-glucosio di tipo 2), hanno mostrato una minore incidenza sia dell’endpoint primario composito (morte cardiovascolare, infarto o ictus non fatali) sia della mortalità per ogni causa. Tuttavia, restano da chiarire i meccanismi farmacologici che sottendono tale riduzione, nonché sono state sollevate delle avvertenze da parte della FDA il rischio di chetoacidosi e fratture ossee associato all’utilizzo di questa classe di famaci.
6. Gli antidoti dei nuovi anticoagulanti orali
Negli oltre 70.000 pazienti arruolati nei diversi trial clinici, i nuovi anticoagulanti orali si sono dimostrati superiori al warfarin nel ridurre la mortalità, ma il rischio emorragico associato alla somministrazione di questi farmaci, che impone un’accurata valutazione e selezione dei pazienti, costituisce da sempre una preoccupazione per il clinico. Con l’approvazione da parte della FDA dell’antidoto per dabigatran, idarucizumab, e con le prime evidenze della capacità di andexanet alfa nell’annullare l’effetto anticoagulante di apixaban, rivaroxaban ed edoxaban, l’utilizzo dei NAO sembra avviarsi verso un cammino sempre più sicuro.
7. L’innovazione dei pacemaker senza fili
Nel 2015 i dispositivi wireless NanoStim LP (St. Jude Medical) e Micra TPS (Medtronic) hanno ottenuto il marchio CE: l’impianto di un sistema di stimolazione ventricolare monocamerale “wireless” rappresenta una innovazione rivoluzionaria. Questa tipologia di pacemaker, dalle dimensioni corrispondenti ad un decimo di quelle di un pacemaker convenzionale, non necessita di alcun filo o catetere e non richiede incisioni nel torace, né la creazione di una tasca sottocutanea, eliminando così il rischio di potenziali complicanze legate alla procedura tradizionale. Inoltre, il dispositivo si avvale di una tecnica di impianto completamente nuova, in quanto viene inserito attraverso la vena femorale, con un approccio minimamente invasivo, riducendo considerevolmente i tempi di impianto e i rischi connessi.
8. Nuove prospettive per il trattamento endovascolare nell’ictus ischemico
Sembra delinearsi un nuovo percorso nelle modalità di trattamento dell’ictus, grazie alle evidenze derivanti da cinque trial clinici randomizzati (MR CLEAN, ESCAPE, EXTEND-IA, SWIFT PRIME e RAVASCAT) nei quali è stato osservato un netto beneficio dell’intervento endovascolare, da solo o in associazione a trombolisi con t-PA, nei pazienti con ictus ischemico acuto. A differenza di studi precedenti che avevano valutato la terapia endovascolare in pazienti con ictus acuto senza riuscire a documentarne l’efficacia, i risultati positivi di questi studi sono verosimilmente riconducibili alla minore durata della procedura, all’utilizzo di stent di nuova generazione e all’inclusione di pazienti con occlusione accertata di vasi di calibro maggiore.
9. Not to bridge!
La decisione di istituire o meno una terapia ponte in fase periprocedurale nei pazienti trattati con i nuovi anticoagulanti orali è stata oggetto di diversi studi, culminati nei risultati del trial randomizzato BRIDGE, che hanno documentato come il “bridging” con eparina a basso peso molecolare fosse associato ad una maggiore incidenza di sanguinamenti maggiori a fronte di nessuna riduzione degli eventi trombotici. Occorre sottolineare, tuttavia, che nello studio BRIDGE sono stati esclusi i pazienti ad alto rischio con pregresso ictus o portatori di valvola meccanica e, pertanto, i risultati non possono essere estesi a questa categoria di pazienti.
10. Requisiti MOC: la storia continua
Le critiche mosse alla regolamentazione della certificazione professionale imposta dall’American Board of Internal Medicine (ABIM) si sono succedute sempre più numerose nel corso dell’anno, arrivando a dimostrare in un lavoro pubblicato a novembre scorso su Circulation, che la certificazione di per sé non costituisce un fattore predittivo di outcome nei pazienti sottoposti a procedura coronarica percutanea. L’acceso dibattito sui requisiti MOC (Meeting Maintenance of Certification), che ha indotto l’ABIM a plurime rivisitazioni della direttiva iniziale, non sembra comunque essersi esaurito.
Fonte: Mandrola’s Top 10 Cardiology Stories 2015. Medscape, Dec, 2015.