
Una terapia antiaggregante guidata da un test di funzionalità piastrinica o da un test genetico si associa, nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica, a outcome cardiovascolari migliori rispetto alla terapia antiaggregante standard.
È quanto emerge da una metanalisi realizzata da un gruppo di ricercatori italiani, i cui risultati sono stati pubblicati su Lancet, che ha analizzato i dati provenienti da 14 studi sul confronto tra le due strategie (1).
L’attuale scenario della terapia antiaggregante dopo angioplastica coronarica
Come indicato dalle ultime linee guida dell’European Society of Cardiology sulla gestione degli infarti NSTEMI, lo standard di cura attuale per la prevenzione delle complicanze trombotiche nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica è costituito da una doppia terapia antiaggregante (DAPT) con aspirina e un inibitore di P2Y12 (2,3).
Tra gli inibitori di P2Y12 disponibili clopidogrel è quello più utilizzato ma le sue caratteristiche farmacodinamiche fanno sì che in un numero considerevole di pazienti – come ad esempio quelli con polimorfismo genetico del citocromo P450 2C19 (CY92C19) – il suo utilizzo si associ a un’elevata reattività piastrinica in corso di trattamento e, nei soggetti sottoposti ad angioplastica coronarica, a un maggiore rischio trombotico.
Al contrario l’attività di altri inibitori di P2Y12, come prasugrel e ticagrelor, non è modulata dai geni CY92C19 e si associa a un ridotto rischio trombotico nei pazienti con sindrome coronarica acuta. Una caratteristica, questa, che si accompagna però a un rischio più elevato di sanguinamenti.
È stato quindi ipotizzato che la scelta della terapia antiaggregante guidata da un test di funzionalità piastrinica o da un test genetico possa permettere di personalizzare la scelta della terapia antiaggregante nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica, migliorando così gli outcome.
Alcuni studi – come TAILOR-PCI, POPular Genetics, TROPICAL-ACS e PHARMCLO – hanno vagliato questa ipotesi mettendo a confronto terapia guidata e standard in modo selettivo su pazienti con elevata reattività piastrinica in corso di trattamento o portatori di anomalie a livello dei geni CY92C19 o in generale su pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica, portando però a risultati non conclusivi.
Secondo gli autori della metanalisi pubblicata su Lancet, infatti, gli studi in questione non avevano la potenza statistica necessaria per valutare gli effetti delle diverse strategie su outcome come la mortalità per tutte le cause, la mortalità cardiovascolare o gli eventi cardiovascolari.
Terapia antiaggregante dopo angioplastica coronarica: guidata o standard?
I ricercatori hanno quindi deciso di realizzare una revisione sistematica degli studi randomizzati e osservazionali sul confronto tra una terapia antiaggregante guidata da un test di funzionalità piastrinica o da un test genetico e una terapia standard nei pazienti con sindrome coronarica acuta o cronica sottoposti a intervento coronarico percutaneo con impianto di stent.
Sono stati individuati 3.656 articoli potenzialmente rilevanti. In totale, sono stati inclusi nella metanalisi 14 studi – 11 randomizzati e 3 osservazionali – per un totale di 20.743 pazienti seguiti per un follow up medio di 11 mesi. In 6 degli studi la strategia antiaggregante guidata prevedeva un test di funzionalità piastrina mentre gli altri 8 prevedevano un test genetico.
L’endpoint primario di efficacia era costituito dagli eventi cardiovascolari maggiori, così come definiti dai singoli trial, mentre quelli secondari dalla mortalità per tutte le cause, la mortalità cardiovascolare, l’infarto miocardico, l’ictus e una trombosi dello stent definita o probabile.
I risultati della metanalisi hanno messo in evidenza una riduzione significativa dell’endpoint primario di efficacia nei pazienti sottoposti a terapia antiaggregante guidata rispetto all’approccio standard (p=0,015). Un beneficio, questo, emerso negli studi randomizzati (p=0,039) ma non in quelli osservazionali (p=0,24).
Per quanto riguarda gli endpoint secondari di efficacia, invece, la terapia aggregante guidata è risultata associata a una riduzione della mortalità cardiovascolare, degli infarti miocardici, delle trombosi da stent e dell’ictus. Non sono emerse differenze tra i due approcci, invece, in termini di mortalità per tutte le cause.
Non è emersa una differenza significativa neanche per quanto riguarda l’endpoint primario di sicurezza (p=0,069). Considerando qualsiasi tipologia di sanguinamento è stato riscontrato un beneficio a favore della terapia antiaggregante guidata negli studi randomizzati (p=0,036) ma non in quelli osservazionali (p=0,6). Inoltre, la strategia guidata è risultata associata a un tasso significativamente ridotto di sanguinamenti minori ma non di sanguinamenti maggiori.
In generale , poi, gli outcome associati alla terapia antiaggregante guidata sono risultati influenzati dalla strategia utilizzata: un approccio di escalation (ad es. switch da clopidogrel a prasugrel, ticagrelor, doppia dose di clopidogrel o clopidogrel più cilostazol) è risultato associato a una riduzione degli eventi ischemici a parità di sicurezza mentre un approccio di de-escalation (ad es. switch da prasugrel o ticagrelor a clopidogrel) a una riduzione dei sanguinamenti a parità di efficacia.
Verso un’adozione diffusa della terapia antiaggregante guidata?
In un editoriale di commento, Dirk Sibbing e Adnan Kastrati della Klinikum der Universität München hanno sottolineato come i medici dovrebbero continuare a seguire le linee guida ma che, allo stesso tempo, “una terapia antiaggregante guidata con approccio di escalation potrebbe essere desiderabile nei casi in cui il rischio trombotico supera quello di sanguinamenti e, viceversa, un approccio di de-escalation potrebbe risultare particolarmente adatto ai casi in cui il rischio di sanguinamenti è maggiore di quello trombotico” (4).
Altri autori hanno però messo in evidenza alcune barriere all’utilizzo routinario dei test di funzionalità piastrinica e genetico per la guida della terapia antiaggregante nei pazienti sottoposti ad angioplastica coronarica. Tra queste, ad esempio, le caratteristiche dei test attualmente disponibili, i quali in molti casi richiedono analisi molto complesse realizzabili solo da laboratori specializzati e con tempistiche piuttosto lunghe. Ma sembra esserci anche un problema culturale e logistico: al momento, infatti, la maggior parte dei centri non avrebbe le risorse e le competenze necessarie per effettuare i test utili a guidare la scelta della terapia antiaggregante.
Fabio Ambrosino
Bibliografia
1. Galli M, Benenati S, Capodanno D, et al. Guided versus standard antiplatelet therapy in patients undergoing percutaneous coronary intervention: a systematic review and meta-analysis. Lancet 2021; 397: 1470 – 1483.
2. Neumann FJ, Sousa-Uva M, Ahlsson A, et al. 2018 ESC/EACTS guidelines on myocardial revascularization. European Heart Journal 2019; 40: 87 – 165.
3. Collet JP, Thiele H, Barbato E, et al. 2020 ESC guidelines for the management of acute coronary syndrome in patients presenting without persistent ST-segment elevation. European Heart Journal 2020; 40: 87 – 165.
4. Sibbing D, Kastrati A. Guided P2Y12 inhibitor therapy after percutaneous coronary intervention. Lancet 2021; 397: 1423 – 1425.