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ISCHEMIA trial: punti di forza e di debolezza

By 24 Giugno 2020No Comments
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ISCHEMIA trial

L’ISCHEMIA trial è nato con l’obiettivo di fornire una risposta definitiva alla questione, aperta da oltre quarant’anni, relativa alla migliore strategia di trattamento per i pazienti con sindrome coronarica cronica stabile. Per farlo gli autori hanno deciso di puntare su un impianto metodologico estremamente ambizioso, basato su criteri stringenti nella selezione del campione di studio ed endpoint clinicamente rilevanti. Nel corso dello studio, tuttavia, è stato necessario apportare alcune modifiche al disegno sperimentale al fine di superare alcune difficoltà emerse nel reclutamento dei pazienti. Al momento della pubblicazione dei risultati sul New England Journal of Medicine, dai quali non sono emersi benefici associati alla scelta di sottoporre i pazienti a una strategia invasiva (1), il disegno sperimentale era quindi diverso da quello originario, con diversi punti di forza e di debolezza.  

Al momento dell’ideazione dello studio, nel 2013, i ricercatori avevano deciso di reclutare i pazienti solo sulla base di un’evidenza di ischemia miocardica ottenuta mediante test di imaging, in modo da poter selezionarli attraverso una misura quanto più possibile oggettiva ed escludere casi di malattia del tronco comune. L’anno successivo, al fine di favorire il reclutamento dei pazienti e la generalizzabilità dei risultati, si è optato per includere anche una porzione di soggetti (il 25% del campione totale, al momento della pubblicazione) con ischemia documentata con test da sforzo. A prescindere da questa modifica, tuttavia, secondo alcuni esperti il campione di studio del trial ISCHEMIA soffrirebbe di un bias di selezione legato alla tendenza dei medici di non arruolare in studi randomizzati pazienti con casi più gravi di ischemia (2).

Per quanto riguarda l’endpoint primario, invece, inizialmente questo era costituito, in una logica di time-to-first-event, dalla mortalità cardiovascolare e l’infarto miocardico non fatale, assumendo di avere almeno il 20% di questi eventi al quarto anno di follow up. A causa del tasso di incidenza più basso del previsto e della difficoltà nel reclutamento, legata all’abitudine dei cardiologi a sottoporre i pazienti con sindrome coronarica cronica stabile a rivascolarizzazione, l’executive committe dello studio ha quindi scelto di ricalcolare la numerosità del campione sulla base degli eventi registrati fino al 2018, assumendo di raggiungere la soglia del 14% al terzo anno di follow up. Inoltre, l’endpoint primario è stato ampliato aggiungendo anche le ospedalizzazioni per angina instabile e scompenso cardiaco e gli attacchi cardiaci resuscitati. Ovviamente, le modifiche sono state effettuate garantendo la valutazione in cieco degli eventi.  

Un’altra tematica molto dibattuta è stata la scelta della definizione di infarto miocardico periprocedurale. Un aspetto particolarmente significativo, questo, alla luce dei risultati ottenuti, i quali hanno messo in evidenza un numero maggiore di eventi nel gruppo sottoposto a strategia invasiva nei primi due anni di follow up (differenza assoluta pari all’1,9%), legato proprio alla maggiore frequenza di infarti periprocedurali, e un numero maggiore di eventi nel gruppo sottoposto a strategia conservativa negli ultimi due anni di follow up (differenza assoluta pari all’2,2%), in questo caso legato principalmente agli infarti miocardici spontanei. I risultati del follow up a 7 anni daranno indicazioni più chiare in merito a questa tendenza.

A prescindere dall’andamento a lungo termine, tuttavia, i risultati sono influenzati dalla definizione di infarto periprocedurale utilizzata nello studio, la quale prevedeva un aumento di 35 volte dei valori normali di troponina in presenza di altri segni, quali una modificazione a livello di ECG o angiografia, o di 70 volte i livelli di troponina in assenza di questi segni. Alcuni esperti hanno infatti sottolineato come l’impiego di tale definizione riveli una tendenza dei cardiologi interventisti a minimizzare questo tipo di eventi. Adottando una definizione più diffusa – come quella proposta nella IV definizione universale di infarto, la quale prevede un aumento di 5 volte dei livelli di troponina – i risultati avrebbero probabilmente messo in evidenza un andamento più sfavorevole associato alla strategia invasiva.  

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Maron DJ, Hochman JS, Reynolds HR, et al. Initial invasive or conservative strategy for stable coronary disease. New England Journal of Medicine 2020; 382:1395-407.
2. Indolfi C, Spaccarotella C. L’angioplastica nelle sindromi coronariche croniche dopo il trial ISCHEMIA: che cosa cambia? Il punto di vista del cardiologo interventista. Giornale Italiano di Cardiologia 2020; 21(6):431-433.