
L’ipotermia terapeutica non porta benefici nei bambini sopravvissuti a un arresto cardiaco intraospedaliero (IHCA). Da uno studio realizzato dall’University of Michigan Health System, i cui risultati sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine (1), è emerso che i pazienti pediatrici sottoposti a ipotermia terapeutica hanno tassi di sopravvivenza a 12 mesi, con prognosi favorevoli a livello neurocomportamentale, simili a quello dei bambini trattati a temperature normali (normotermia terapeutica).
Il trial clinico randomizzato, condotto in 37 strutture ospedaliere diverse di Stati Uniti, Canada e Regno Unito, ha preso in considerazione un gruppo di 329 pazienti pediatrici di età compresa tra le 48 ore di vita e i 18 anni, vittime di un arresto cardiaco durante un ricovero. Di questi, 166 sono stati assegnati al gruppo dell’ipotermia terapeutica (temperatura target 33,0°) dopo l’IHCA mentre i restanti 163 sono stati trattati a temperature normali (target 36,8°). 257 bambini sono stati valutati in relazione all’outcome primario, che consisteva nel tasso di sopravvivenza a 12 mesi associato a un esito neurocomportamentale favorevole, rappresentato da un punteggio superiore a 70 (su una scala da 60 a 120) alla Vineland Adaptive Behavior Scales second edition (VABS-II). Gli outcome secondari erano invece determinati dalle variazioni della funzionalità neurocomportamentale e dal tasso di sopravvivenza a 1 anno, presi singolarmente. La percentuale di bambini con un punteggio alla VABS-II superiore a 70 a 12 mesi è risultata simile tra quelli sottoposti a ipotermia terapeutica (36%) e quelli trattati in condizione di normotermia (39%). Allo stesso modo, non sono emerse differenze in relazione al tasso di sopravvivenza a 12 mesi (49% vs 46%) e alle variazioni della funzionalità neurocomportamentale. “Il nostro studio non ha trovato evidenze relative a un maggiore tasso di sopravvivenza o un migliore outcome funzionale nei bambini e infanti vittime di IHCA trattati con ipotermia, rispetto a quelli trattati con normotermia” – ha dichiarato Frank Moler, responsabile della ricerca e docente di pediatria all’University of Michigan Health System – “e questo è molto importante”.
Studi precedenti su soggetti adulti avevano infatti dimostrato che portando la temperatura dei pazienti a 33° dopo un arresto cardiaco, questi andavano incontro a migliori outcome a livello neurologico. Al contrario, il team di ricerca condotto da Moler non ha evidenziato lo stesso pattern di risposta in un campione di pazienti pediatrici vittime di IHCA, replicando così i risultati ottenuti in precedenza su un gruppo di bambini vittime di un arresto cardiaco extraospedaliero (2) . “Sembra che per la maggior parte dei pazienti pediatrici si possano utilizzare entrambe le strategie, anche se probabilmente è più sicuro rimanere vicini a una temperatura normale se non si è esperti in questo tipo di interventi”, ha suggerito Moler. Infatti, per quanto relativamente semplice, l’ipotermia terapeutica è una procedura che non viene insegnata nelle facoltà di medicina e che richiede un certo grado di addestramento. Secondo l’autore lo studio in questione non era tuttavia abbastanza grande per poter concludere che non esiste una sottoclasse di pazienti che potrebbe invece trarre benefici dall’ipotermia terapeutica. Inoltre, non è chiaro se periodi più lunghi o più brevi di raffreddamento potrebbero determinare delle differenze tra i due gruppi.
Fabio Ambrosino
▼ Moler FW, Silverstein FS, Holubkov R, et al. Therapeutic Hypothermia after In-Hospital Cardiac Arrest in Children. The New England Journal of Medicine 2017; 376: 318 – 329