
Il trial ISCHEMIA non ha avuto solo il pregio di fare chiarezza sulla migliore strategia di trattamento per i pazienti con sindrome coronarica cronica. Una sotto-analisi dello studio – il trial ISCHEMIA-CKD – ha messo a confronto l’efficacia di un approccio conservativo e di uno invasivo nell’ambito dei pazienti con sindrome coronarica cronica e malattia renale avanzata, i quali erano stati esclusi o trascurati dagli altri studi che avevano indagato la questione in precedenza, dal COURAGE al BARI2D. I risultati emersi, presentati nel corso dell’ultimo congresso dell’American College of Cardiology e pubblicati sul New England Journal of Medicine (1), sono però in linea con quelli dello studio generale: la strategia invasiva non ha portato benefici rispetto a quella conservativa.
Lo studio ISCHEMIA-CKD ha reclutato pazienti con malattia renale avanzata, definita da una velocità di filtrazione glomerulare stimata inferiore a 30ml/min/1,73m2 o dall’attestazione di dialisi, e un’ischemia moderata o severa, randomizzati a un trattamento conservativo o invasivo. La sottoanalisi è iniziata 2 anni dopo lo studio generale ISCHEMIA e si differenziava da questo per l’impiego dell’angiografia coronarica con TC, non raccomandata come strumento di screening per individuare coronaropatie dell’arteria sinistra o patologie non ostruttive a causa del rischio di danno renale acuto. Inoltre, a differenza del trial ISCHEMIA non sono state effettuate analisi di laboratorio per confermare i risultati dello stress test.
La strategia invasiva era costituita da un’angiografica coronarica, effettuata – quando possibile – entro 30 giorni dalla randomizzazione, e da una procedura di rivascolarizzazione (PCI o CABG) in aggiunta alla terapia medica ottimale. Quella conservativa, invece, era costituita dalla sola terapia medica ottimale, che a sua a sua volta prevedeva interventi di prevenzione secondaria basati su modifiche dello stile di vita e l’impiego di trattamenti farmacologici. L’endpoint primario era costituito da un composito di morte o infarto del miocardio non fatale, mentre l’endpoint secondario principale era costituito morte, infarto del miocardio non fatale, o ospedalizzazioni per angina instabile, scompenso cardiaco, o arresto cardiaco non resuscitato. Inoltre, i ricercatori hanno utilizzato il Seattle Angina Questionaire e il Canadian Cardiovascular Society angina class per valutare la qualità di vita in relazione all’angina. Infine, gli endpoint di sicurezza erano costituiti dall’inizio della dialisi in pazienti che in precedenza non erano costretti a sottoporsi a questa procedura e da una misura composita di nuove dialisi o morte.
In totale sono stati inclusi nello studio, tra il 2014 e il 2018, 802 pazienti, di cui 777 sono stati randomizzati presso 118 centri distribuiti in 30 Paesi. Per quanto riguarda l’endpoint primario di efficacia, questo è occorso in 123 pazienti del gruppo assegnato alla strategia invasiva e in 129 di quelli assegnati alla strategia conservativa (HR aggiustato: 1,01; p=0,95). L’endpoint secondario è invece occorso in 132 e 138 pazienti, rispettivamente (HR aggiustato: 1,01). L’incidenza di morte per tutte le cause e morte cardiovascolare è risultata elevata e simile in entrambi i gruppi e anche per quanto riguarda i tassi di infarti del miocardio, ospedalizzazioni per angina instabile e ospedalizzazioni per scompenso cardiaco non sono emerse differenze. Al contrario, il trattamento invasivo è risultato associato a un tasso più di ictus elevato (p=0,004), guidato dagli eventi non procedurali, e a una maggiore incidenza di morte o inizio di dialisi.
Infine anche nel trial ISCHEMIA-CKD l’approccio invasivo ha determinato una riduzione degli infarti spontanei, accompagnata però da un aumento di quelli procedurali. Come nello studio generale, tuttavia, l’andamento nel tempo di tale evidenza è necessariamente influenzato dalla definizione di infarto procedurale utilizzata. In ogni caso, anche questa sotto-analisi mette in evidenza l’assenza di benefici associati alle procedure di rivascolarizzazione nei soggetti con sindrome coronarica cronica, ischemia moderata o grave e malattia renale avanzata asintomatici o poco sintomatici.
Fabio Ambrosino
Bibliografia:
1. Bangalore S, Maron DJ, O’Brien SM, et al. Management of Coronary Disease in Patients with Advanced Kidney Disease. New England Journal of Medicine 2020; 382:1608-1618