
“Molti imperatori che indossano molti vestiti”. Si conclude con questo riferimento alla nota fiaba di Hans Christian Andersen un editoriale pubblicato su JACC: Heart Failure, a firma di Tariq Ahmad, Nihar R. Desai e James L. Jannuzzi (1), in cui gli autori commentano i risultati di uno studio dell’University of Pennsylvania che ha indagato i diversi fenotipi clinici esistenti all’interno dello scompenso cardiaco a frazione di eiezione preservata (HFpEF) (2).
In particolare, il gruppo dell’University of Pennsylvania ha effettuato un’analisi di cluster sui 3.445 pazienti reclutati nello studio TOPCAT (Treatment of Preserved Cardiac Function Heart Failure with an Aldosterone Antagonist Trial) prendendo in considerazione 8 variabili cliniche, tra cui biomarcatori del plasma congelato, la struttura e la funzionalità cardiaca misurate mediante ecocardiografia e tonometria arteriosa, la prognosi e la risposta allo spironolattone. Così facendo, i ricercatori sono stati in grado di identificare 3 diversi fenotipi clinici:
- Fenotipo 1 (n=1.214): pazienti caratterizzati da età minore, maggiore prevalenza di fumatori, classe funzionale preservata ed evidenza di ipertrofia ventricolare sinistra (LV) e rigidità arteriosa.
- Fenotipo 2 (n= 1.329): pazienti più anziani con rimodellamento LV concentrico normotrofico, fibrillazione atriale, ingrossamento dell’atrio sinistro, irrigidimento delle arterie e biomarcatori di immunità innata e calcificazione vascolare.
- Fenotipo 3 (n=899): pazienti con maggiore compromissione funzionale, obesità, diabete, malattia renale cronica, renina alta e biomarcatori dell’infiammazione mediata dal fattore di necrosi tumorale alfa, fibrosi epatica e rimodellamento del tessuto.
Dai risultati è poi emerso che, rispetto a quelli con fenotipo 1, i pazienti con fenotipo 3 hanno un rischio maggiore di andare incontro all’endpoint primario di morte cardiovascolare, ospedalizzazione per scompenso cardiaco o arresto cardiaco interrotto, mentre non sono emerse differenze in termini di mortalità per tutte le cause tra fenotipo 2 e fenotipo 3. Infine, il trattamento con spironolattone è risultato associato a una maggiore riduzione del rischio di andare incontro all’endpoint primario nei soggetti con fenotipo 3.
I ricercatori hanno anche realizzato delle analisi statistiche descrittive sui soggetti per cui erano disponibili dati relativi a 49 biomarcatori (n=379) e quelli per cui era disponibile un’ecocardiografia alla baseline (n=935), fornendo indicazioni circa i possibili meccanismi sottostanti le differenze tra i tre fenotipi di scompenso cardiaco. Ad esempio, il fenotipo 3 mostra evidenze di una possibile disregolazione metabolica che potrebbe spiegare il beneficio maggiore associato al trattamento con spironolattone. Il fenotipo 1, invece, risulta associato a scarsezza di sintomi/segni di scompenso cardiaco, a concentrazioni normali di biomarcatori e a una maggiore frequenza di pazienti provenienti dall’Europa dell’Est.
Secondo Ahmad, Desai e Jannuzzi, per interpretare correttamente i risultati dello studio dell’University of Pennsylvania è necessario prendere in considerazione alcuni fattori. “Qualsiasi processo di fenotipizzazione è sensibile al tipo di variabili che vengono analizzate”, commentano. Gli autori dell’editoriale sottolineano infatti come in generale lo studio TOPCAT avesse analizzato poche variabili cliniche e scarsamente definite e che dati tali da permettere l’applicazione di algoritmi di clustering erano disponibili solo per pochi soggetti. Inoltre, anche la scelta stessa della metodologia di data mining e dei biomarcatori da prendere in considerazione, in alcuni casi poco studiati nell’ambito dell’HFpEF, potrebbero avere un impatto sui risultati finali.
“È evidente che manca qualcosa nella nostra definizione di HFpEF – scrivono Ahmad, Desai e Jannuzzi –, ma i tentativi di ridefinire la sindrome necessitano di qualcosa in più della sola apparenza di novità. Attualmente l’applicazione dei big data al problema dello scompenso cardiaco non ha permesso di andare oltre la conferma di un problema che i clinici conoscono già: l’HFpEF è un falso costrutto che consiste in diverse patologie”. Affinché questo tipo di ricerche possa avere un impatto clinico reale, secondo i tre autori non sono quindi necessari ulteriori trial clinici ma una rivisitazione degli elementi di base utilizzati per le diverse diagnosi di scompenso. “C’è la necessità di colmare il vuoto esistente tra i progressi raggiunti nell’ambito della biologia dello scompenso cardiaco e l’assistenza clinica e i trial, ancora basati su descrittori di malattia inesatti come la frazione di eiezione del ventricolo sinistro e la New York Heart Association functional class. Il lavoro dei ricercatori dell’University of Pennsylvania rappresenta un primo importante passo in questa direzione”.
Fabio Ambrosino
Bibliografia
1. Ahmad T, Desai NR, Januzzi JL. Heart failure with preserved ejection fraction. JACC: Heart Failure 2020; 8(3): DOI: 10.1016/j.jchf.2019.11.004.
2. Cohen JB, Schrauben SJ, Zhao L, et al. Clinical Phenogroups in Heart Failure With Preserved Ejection Fraction. Detailed Phenotypes, Prognosis, and Response to Spironolactone. JACC: Heart Failure 2020; 8(3): DOI: 10.1016/j.jchf.2019.09.009.