
Il 14 novembre 2016 il New England Journal of Medicine ha pubblicato i risultati a 5 anni di un trial prospettico randomizzato che confrontava 1554 pazienti sottoposti a rivascolarizzazione miocardica con l’uso di una singola arteria mammaria vs l’uso di entrambe le arterie mammarie in 1548 pazienti. Il gruppo di ricercatori che ha effettuato questo studio (ART Investigators) è capitanato da David P. Taggart dell’Università di Oxford, noto per le sue pubblicazioni su questo specifico argomento (solo per citarne una Effect of arterial revascularisation on survival: a systematic review of studies comparing bilateral and single internal mammary arteries e per la sua convinzione nei migliori risultati ottenibili con l’impiego della “doppia mammaria”. In effetti, e nonostante i risultati pubblicati – anche dalla stessa revisione sistematica del 2001 di Taggart – non fossero univoci, la comunità scientifica cardiochirurgica e cardiologica si è diffusamente convinta dei vantaggi ottenibili con la doppia arteria mammaria ritenendo la rivascolarizzazione non “totalmente arteriosa” una pratica antiquata e da non applicare più, specialmente in pazienti giovani. In realtà, però, lo stesso Taggart, proprio per la mancanza all’epoca di studi prospettici randomizzati sul tema, decise di costituire il gruppo di studio “ART” per dare una risposta “definitiva” al problema e pensionare l’uso della rivascolarizzazione “in vena”.
I primi risultati ottenuti da questo gruppo di studio nel confronto singola vs doppia mammaria non hanno evidenziato un vantaggio reale nell’uso della doppia mammaria, anzi: nei pazienti sottoposti a questa procedura il rischio di infezioni di ferita era più elevato. La reazione a quest’articolo del 2010 è stata quella di ritenere l’assenza di vantaggi legati alla brevità del follow-up: il vantaggio di una rivascolarizzazione totalmente arteriosa dovrebbe legarsi alla maggiore durabilità dei graft e, quindi, i vantaggi dovrebbero registrarsi a follow-up di maggiore durata.
Ed eccoci all’articolo del New England Journal of Medicine del 16 novembre: adesso siamo a 5 anni di follow-up ma i risultati restano in linea con quelli visti al primo anno di controllo. Non c’è differenza nella sopravvivenza né negli eventi avversi a 5 anni di follow-up e il rischio di infezioni di ferita resta superiore nel gruppo doppia arteria mammaria. Sembra inoltre che “il mito” per cui tutti i cardiochirurghi operano “tutti i pazienti in maniera totalmente arteriosa”, sia, appunto, “un mito”: gli stessi autori si sorprendono del basso tasso di aderenza, più basso di quanto si aspettassero, al protocollo con uso di doppia mammaria. Infatti i chirurghi in studio hanno spesso prediletto l’arteria mammaria singola più vene, nonostante la richiesta del braccio di randomizzazione.
In generale, una spiegazione dei risultati potrebbe essere legata al fatto che la pervietà dei graft in vena safena confezionati oggigiorno potrebbe essere sorprendente in senso positivo per la terapia medica migliorata applicata a questi pazienti. Questo potrebbe favorire la durabilità dei graft rispetto a quella registrata negli studi storici sulla vena safena. Occorre attendere i risultati che gli autori pubblicheranno a 10 anni ma appare molto interessante vedere come “certezze” che sembravano assodate, come la rivascolarizzazione totalmente arteriosa o la chirurgia “off-pump” per i bypass, che pure è stata messa in forte dubbio da importanti trial (uno su tutti il trial CORONARY), sembrano “scricchiolare”: che la vecchia chirurgia coronarica in circolazione extracorporea ed uso di una mammaria e vena safena – con l’impiego delle nuove “CEC” e di una buona protezione farmacologica dei graft venosi – sia il nuovo futuro della chirurgia coronarica?
A cura di Giuseppe Santarpino
Centro Cardiovascolare – Paracelsus Medical University di Norimberga, Germania