
La riduzione del tasso di mortalità cardiovascolare ottenuta nel corso del ventesimo secolo nei Paesi ad alto reddito rappresenta uno dei successi più eclatanti della medicina moderna. Negli Stati Uniti, ad esempio, questo indice si è ridotto del 70% dal 1950 al 2017 (1,2). Negli anni, tuttavia, diversi studi hanno dimostrato come questo effetto sia molto meno evidente in alcune fasce della popolazione. Nello specifico: quelle con un basso status socioeconomico. In un articolo pubblicato recentemente su JAMA Cardiology, il direttore del Center for Translation Research and Implementation Science (CTRIS) del National Heart, Lung and Blood Institute di Bethesda (Maryland) – George A. Mensah – ha messo in evidenza la relazione tra determinanti sociali della salute e mortalità cardiovascolare (3).
“Le medie non sono una consolazione per chi è stato lasciato indietro”, scriveva il Premio Nobel per l’Economia Sir Angus Deaton ne 2013. Analizzando i dati relativi alla mortalità cardiovascolare negli Stati Uniti si vede come, nel 2017, questo parametro risulti fino a 2,5 volte maggiore negli cittadini di etnia afro-americana rispetto a quelli di etnia asiatica (2). Uno studio che ha esaminato il trend di mortalità cardiovascolare prematura (tra i 25 e i 64 anni) tra dal 2000 al 2015, invece, ha messo in evidenza come questo indice sia più elevato tra i nativi americani e gli abitanti dell’Alaska e, in generale, aumenti progressivamente all’abbassarsi dello status socioeconomico (4). “La minaccia comune in queste popolazioni non è la l’etnia – scrive Mensah – ma le determinanti sociali, economiche e ambientali della salute, insieme alla compresenza di fattori di rischio”.
Ma quanto incide lo status socioeconomico sul rischio di morire per una patologia cardiovascolare? In un’indagine condotta su 400.000 abitanti degli Stati Uniti, i cui risultati sono stati presentati nel corso di ACC.20, la percezione di incertezza relativa alla propria condizione abitativa e alla possibilità di accedere ad assistenza sanitaria è risultata associata a un incremento del rischio di patologie cardiovascolari rispettivamente del 50% e del 47%. In generale i soggetti con insicurezza finanziaria, definita da fattori quali il timore di non riuscire a pagare l’affitto o il mutuo, sono risultati associati a un rischio di più di due volte maggiore di incorrere in problematiche cardiovascolari rispetto a chi si sentiva finanziariamente sicuro.
Di recente un altro studio pubblicato su JAMA Cardiology ha cercato di quantificare l’eccesso nell’incidenza di cardiopatie nelle fasce di popolazione con status socioeconomico più basso, con l’obiettivo di stabilire in quale proporzione questo fosse associato a fattori di rischio tradizionali o a determinati di tipo sociale (5). Utilizzando il Cardiovascular Disease Policy Model, un modello informatico che elabora dati relativi alle patologie cardiovascolari a un livello di popolazione , i ricercatori hanno stimato che i 32,2 milioni di americani di età compresa tra i 35 e i 64 anni con uno status socioeconomico più basso presentano un tasso di incidenza di infarto miocardico doppio rispetto ai cittadini con status socioeconomico più elevato. Inoltre, l’eccesso nell’incidenza di patologie cardiovascolari nelle popolazioni più svantaggiate sarebbe associabile per il 60% a fattori legati allo status socioeconomico e solo per il 40% a fattori di rischio tradizionali.
Secondo Mensah, per ridurre ed eliminare le disparità esistenti nella popolazione generale in termini di salute cardiovascolare è necessario utilizzare un “approccio multidisciplinare e collaborativo, che coinvolga pazienti, operatori sanitari, sistemi sanitari e intere comunità a livelli multipli”. Secondo il Direttore del CTRIS di Bethesda, infatti, garantire un equo accesso alle cure è importante ma non sufficiente. In primo luogo, ad esempio, sembra centrale riuscire a identificare gli individui e i gruppi sociali più a rischio, in modo da poter calibrare l’intensità degli interventi sulla base delle necessità specifiche.
Il traguardo raggiunto nel ventesimo secolo in termini di riduzione delle morti cardiovascolari è senza dubbio importante, ma è solo una parte della storia. Negli ultimi anni, ad esempio, per alcuni gruppi sociali il tasso di decessi prematuri per cause cardiovascolari non solo non sta diminuendo, ma sta addirittura aumentando. “Affrontare i tradizionali fattori di rischio cardiovascolare è necessario – conclude Mensah – ma non è sufficiente per ridurre la mortalità cardiovascolare. È arrivato il momento di affrontare le determinanti sociali, ambientali e socioeconomiche e il loro rapporto con le disuguaglianze di salute in ambito cardiovascolare”.
Fabio Ambrosino
Bibliografia:
1. National Center for Health Statistics. Health, United States, 2017: with special feature on mortality.
2. Kochanek KD, Murphy SL, Xu JQ, Arias E. Death: final data for 2017. National Vital Statistics Reports. Vol 68, n. 9.
3. Mensah GA. Socioeconomic status and heart health – Time to tackle the gradient. JAMA Cardiology 2020; doi:10.1001/jamacardio.2020.1471.
4. Chen Y, Freedman ND, Albert PS, et al. Association of cardiovascular disease with premature mortality in the United States. JAMA Cardiology 2019; 4(12): 1230 – 1238.
5. Hamad R, Penko J, Kazi DS, et al. Association of low socioeconomic status with premature coronary heart disease in US adults. JAMA Cardiology 2020; doi:10.1001/jamacardio.2020.1458