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Insufficienza cardiaca: il caso degli ARNI

By 9 Ottobre 2018Marzo 30th, 2022No Comments
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Insufficienza cardiaca

A quattro anni dalla pubblicazione dei risultati del trial PARADIGM-HF, sono ormai consistenti le evidenze relative all’efficacia e alla sicurezza di sacubitril/valsartan (LCZ696) nel trattamento dell’insufficienza cardiaca. Le più importanti sono state recentemente discusse da un panel di esperti nel corso del simposio “Dalla valutazione del rischio all’ottimizzazione della terapia nell’insufficienza cardiaca: il caso degli ARNI”, svoltosi a Milano nell’ambito della 52esima edizione del Convegno Cardiologia del Centro De Gasperis.

Il primo intervento è stato tenuto da Gianfranco Sinagra (Struttura Complessa di Cardiologia – Azienda Universitaria Integrata di Trieste), il quale ha affrontato il problema della valutazione del rischio nei pazienti con insufficienza cardiaca. In particolare, Sinagra ha descritto questa patologia come una sindrome “generatrice di rischi”, a prescindere dalla stabilità e della sintomaticità associate. “Il paziente apparentemente stabile in classe NYHA II – ha spiegato –, quello che non ha bisogno di modificare il diuretico e che tutto sommato si ritiene soddisfatto del suo stato clinico, è il paziente sul quale investire in maniera significativa, proprio per evitare che diventi un paziente sintomatico”.

Nei soggetti con scompenso, infatti, il rischio può dipendere sia da fattori legati all’evoluzione biologica della malattia che da altre componenti. Tra queste, ad esempio, la progressione di una coronaropatia o di una valvulopatia, l’insorgenza di fibrillazione atriale o di dissincronia causata da un blocco di branca, il verificarsi di un nuovo evento cardiaco o di un’ospedalizzazione, lo sviluppo di danno d’organo o diabete. “Non dovremmo aspettare che un paziente con scompenso cronico diventi un paziente con scompenso ingravescente”, ha sottolineato Sinagra. Soprattutto in quanto esistono trattamenti che permettono di agire efficacemente sui meccanismi fisiologici associati a queste condizioni. “Sacubitril/valsartan – ha concluso – ha la capacità di influenzare favorevolmente il decorso e può determinare una riduzione significativa e precoce del rischio di mortalità, di ospedalizzazioni e di morte improvvisa in tutti i quintili delle classi di rischio”.

Diventa quindi fondamentale capire in quale momento cominciare il trattamento con gli ARNI. In quest’ottica, nel corso dell’intervento successivo Michele Senni (Unità di Cardiologia 1 – Ospedale di Bergamo) ha affrontato il tema della transition to care e dell’ottimizzazione della terapia nei primi 30-60 giorni successivi alla dimissione. Questa fase “vulnerabile” del percorso terapeutico è infatti estremamente delicata, come dimostrato dagli elevati tassi di mortalità e di riospedalizzazione. “È un momento determinante per cercare di migliorare la terapia dei nostri pazienti”, ha sottolineato Senni.

Da qui la realizzazione dello studio TRANSITION, il quale aveva l’obiettivo di confrontare due diversi protocolli di trattamento con sacubitril/valsartan in pazienti ospedalizzati: nel primo la terapia è stata iniziata durante la fase di stabilizzazione del ricovero, mentre nel secondo il farmaco è stato somministrato per la prima volta entro le due settimane successive alla dimissione. In generale l’endpoint primario, costituito dal raggiungimento di un dosaggio pari a due somministrazioni da 200 mg/die entro le prime 10 settimane, è stato raggiunto con successo da quasi il 50% dei pazienti. Prendendo in considerazione anche altri dosaggi, ha poi spiegato Senni, “solo il 4% dei casi non è risultato in trattamento con sacubitril/valsartan a 10 settimane”. Tra i due protocolli, infatti, non sono emerse differenze in termini di safety. “Si può quindi concludere che l’impiego di questo trattamento in pazienti ospedalizzati è fattibile e ben tollerato”.

Infine, nell’ultima parte del simposio Claudio Rapezzi (Unità Operativa di Cardiologia – Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna) ha affrontato alcune domande centrali relative all’impiego degli ARNI. In primo luogo, il cardiologo si è interrogato sul perché sacubitril/valsartan non sia ancora “diffuso come meriterebbe”, nonostante i risultati del trial PARADIGM-HF. Le ragioni individuate da Rapezzi sono diverse, di natura sia psicologica che clinica ed economica. Ad esempio, dal suo punto di vista i medici sono in genere portati a considerare il raggiungimento di uno stato di stabilità dello scompenso come un buon punto di arrivo. “La domanda è: di fronte a un paziente stabile o asintomatico, perché dovrei decidere di investire tempo (mio e del paziente) per iniziare un percorso che porti in terapia un altro farmaco? Se sta già relativamente bene, siamo sicuri che il gioco valga la candela?”.

Un paziente stabile, tuttavia, non è da considerarsi un paziente a basso rischio. “Nel trial PARADIGM-HF – ha spiegato Rapezzi – il 20% dei soggetti cosiddetti molto stabili (cioè senza un precedente ricovero) ha avuto un evento primario nell’arco del follow-up e il 17% è morto durante il trial”. Dal momento che nello stesso studio la sopravvivenza media dei pazienti del braccio trattato con sacubitril/valsartan è risultata di 1,3 anni superiore rispetto a quella del braccio enalapril, è evidente come la diffusione non ancora ottimale di questa terapia sia dovuta principalmente a una questione di inerzia culturale. “Una media di 1,3 anni in un trial sullo scompenso è molto – ha sottolineato Rapezzi –, c’è il 50% dei pazienti che ha guadagnato 2,5 anni di vita”.

Purtroppo, le linee guida a disposizione non sono molto di aiuto nella definizione del trattamento. O almeno non quelle europee. “Non hanno trattato benissimo il sacubitril/valsartan – ha continuato Rapezzi – perché è stato fatto un copia/incolla non meditato del trial PARADIGM-HF”. Le linee guida dell’European Society of Cardiology, infatti, raccomandano di cominciare a trattare i pazienti con le terapie standard e di passare agli ARNI solo nel caso i sintomi persistano. Al contrario, quelle statunitensi pongono la terapia in classe 1b: raccomandata per tutti i pazienti in classe NYHA II o III che già ricevono un trattamento con ACE-inibitori. “È una posizione più semplice: il tuo paziente è in classe NYHA II? Hai un farmaco con documentata capacità di prolungare la sopravvivenza? Allora perché non somministrarlo?”.

In conclusione, ha spiegato Rapezzi, “quella degli ARNI è una classe farmacologica che è indubbiamente in grado di modificare il substrato metabolico del paziente”. Inoltre, sulla base dei numerosi dati ormai disponibili in merito alla sicurezza del farmaco, si può considerare “un trattamento da iniziare il prima possibile, senza aspettare ulteriori deterioramenti”. In linea con le opinioni di Sinagra e di Senni, secondo il cardiologo del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi, bisognerebbe cominciare a pensare a sacubitril/valsartan in un’ottica di quotidianità clinica, svestendolo della “dimensione eroica” che al momento lo caratterizza. Per ottenere questo risultato sarà però centrale promuovere un maggiore coinvolgimento culturale da parte dei medici, oltre che un ripensamento critico da parte di alcune società scientifiche che realizzano le linee guida.

Fabio Ambrosino