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Accesso e sostenibilità degli inibitori di PCSK9

By 15 Marzo 2019Settembre 28th, 2021No Comments
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Da circa due anni il ventaglio delle opzioni terapeutiche per il trattamento dell’ipercolesterolemia si è arricchito di una nuova classe di farmaci – gli inibitori di PCSK9 –, in grado di ridurre in modo sostanziale i livelli di colesterolo LDL (LDL-C). In particolare, questi anticorpi monoclonali vengono prescritti a quei pazienti che non raggiungono i livelli target di LDL-C nonostante un  precedente trattamento con statine a elevata efficacia ed ezetemibe. Tuttavia, una recente analisi dell’accessibilità e sostenibilità di questi farmaci – pubblicata sulla rivista I Supplementi di Politiche Sanitarie – ha dimostrato che il loro utilizzo è inferiore rispetto alle stime ricavate dai dati epidemiologici e caratterizzato da grande variabilità, in termini di accesso, tra regione e regione (1).

Le iperlipidemie, ovvero quelle condizioni in cui sono presenti nel sangue alterazioni qualitative e/o quantitative dei lipidi e delle lipoproteine, rappresentano uno dei fattori di rischio principali per alcune manifestazioni precoci dell’aterosclerosi e delle sue complicanze d’organo, quali l’infarto del miocardio, l’ictus e la vasculopatia periferica.  Queste condizioni possono dipendere dalla presenza di una displipidemia primitiva (genetica) – come nel caso dell’ipercolesterolemia familiare (FH) –  o secondaria ad altra patologia, ma possono anche descrivere situazioni non cliniche in cui la concentrazione dei lipidi plasmatici è troppo elevata rispetto al rischio cardiovascolare globale del paziente.

L’utilizzo dei farmaci inibitori di PCSK9 per il trattamento di queste condizioni, il cui gold standard è rappresentato dalle statine, è regolato dalla determina 172/2017 dell’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), la quale stabilisce i relativi criteri di rimborsabilità (2). Secondo la nota l’impiego di questi anticorpi monoclonali è destinato ai pazienti con FH eterozigote (e omozigote, per quanto riguarda evolocumab) resistenti alla terapia convenzionale (con o senza storia di malattia cardiovascolare), a quelli con ipercolesterolemia non-FH o diplipidemia mista resistenti  e con storia di malattia vascolare, a quelli con FH o ipercolesterolemia non-FH resistenti alla terapia convenzionale perché intolleranti alle statine e, infine, a quelli con diabete mellito complicato o ipertensione arteriosa.

“A distanza di due anni questi criteri rimangono pertinenti – commenta Nello Martini, Presidente della Fondazione Ricerca e Salute e co-autore dello studio sui PCSK9 –, anche sulla base degli ulteriori studi che sono stati condotti. Vi è anche una richiesta di estensione delle indicazioni, sulla base dei risultati di outcome che si sono accumulati e che sono stati pubblicati”.  

La definizione di ipercolesterolemia resistente alle terapie convenzionali si basa sulla persistenza di valori di LDL-C superiori a 100 mg/dL in prevenzione secondaria o superiori a 130 mg/dL in prevenzione primaria nonostante la presenza di un trattamento di almeno 6 mesi (valori confermati in 3 follow-up a distanza di almeno 2 mesi l’uno dall’altro) con statine di elevata potenza/efficacia ed ezetimibe. Per quanto riguarda i soggetti affetti da FH in Italia, ad esempio, si stima che quelli non a target nonostante una terapia con statine alla dose massima ed ezetimibe siano circa la metà di quelli in prevenzione secondaria e 1/4 di quelli in prevenzione primaria.

“Se si guardano i risultati del registro EuroAspire 5 – commenta Aldo Maggioni, responsabile del Centro Studi dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO), membro di Fondazione Ricerca e Salute e co-autore del lavoro pubblicato su I Supplementi di Politiche Sanitarie – si vede che una percentuale molto ampia di pazienti, sempre sopra il 60%, non è a target per i livelli di colesterolo, di pressione arteriosa e di glicemia”.

Nonostante una parte considerevole di questi pazienti potrebbe trarre beneficio da un trattamento con gli inibitori di PCSK9, tuttavia, l’utilizzo di questi farmaci in Italia è attualmente inferiore alle stime realizzate sulla base dei dati epidemiologi. Proprio Nello Martini e Aldo Maggioni, ad esempio, hanno indagato questa relazione prendendo in analisi il tasso di prescrizioni di farmaci per il controllo della colesterolemia, l’aderenza al trattamento, l’outcome (in termini di nuove ospedalizzazioni) a un anno e i costi integrati in un campione di oltre 130.000 pazienti reduci da una sindrome coronarica acuta (SCA) o con una coronaropatia documentata (CAD).

Dai risultati è emerso che, nonostante il rischio elevato di eventi ischemici e le forti raccomandazioni delle linee guida a ridurre i livelli di LDL-C, a circa il 30% dei pazienti con CAD non viene prescritto un trattamento con statine al momento delle dimissioni. Se una porzione rilevante dei soggetti non a target potrebbe arrivare a esserlo con una terapia gold standard, tuttavia, secondo gli autori il 30% di questi pazienti (circa 100.000 persone in Italia) necessiterebbe di una terapia aggiuntiva con farmaci più potenti, come gli inibitori di PCSK9.  “In questo gruppo di pazienti l’utilizzo degli inibitori di PCSK9 può dare davvero un risultato molto importante – aggiunge Maggioni – sia in termini di riduzione del LDL-C che in termini di eventi correlati”.

A risultati simili è giunto anche uno studio che ha valutato l’impiego degli inibitori di PCSK9 in Italia e nelle singole Regioni, prendendo in considerazione l’esposizione e la rimborsabilità al farmaco, la variabilità a livello regionale dei pazienti, del numero di centri prescrittori e di unità operative e medici autorizzati alla prescrizione nell’ambito dei centri regionali. Dai risultati è emerso che il numero di pazienti in terapia con un inibitore di PCSK9 in Italia è estremamente basso (2608 soggetti, alla fine del 2017), pari a circa un paziente su 8 tra quelli eleggibili al trattamento. “Abbiamo una situazione in cui c’è una diversità tra l’epidemiologia attesa e l’epidemiologia reale – sottolinea Martini –, in quanto il numero di pazienti trattati è inferiore al numero di quelli che potrebbero effettivamente beneficiare dall’impiego di questi farmaci”.

Un altro dato importante riguarda poi l’accesso a queste nuove terapie, risultato estremamente disomogeneo tra le diverse regioni italiane. Un’evidenza, questa, legata a fattori relativi al modello organizzativo delle singole regioni, quali il numero di centri prescrittori e di unità operative e medici abilitati alla prescrizione: più ricca e articolata è la rete organizzativa sul territorio e maggiore risulta essere l’accesso a questa terapie. “Dopo la decisione a livello nazionale le regioni individuano i centri”, spiega Martini. “Il modello organizzativo regionale diventa quindi un elemento fondamentale che condiziona l’accesso”.

Gli autori precisano però che lo studio non si basa su una valutazione critica o negativa del comportamento delle regioni, ma al contrario vuole essere uno strumento utile per favorire una maggiore appropriatezza prescrittiva degli inibitori di PCSK9 e garantire uniformità ed equità di accesso. L’obiettivo, infatti, è quello di rendere accessibile a tutti coloro che possono trarne benefici dei farmaci che, se impiegati nell’ambito dei criteri indicati da AIFA, possono avere un ruolo importante nel trattamento delle ipercolesterolemie e nella riduzione degli eventi associati. “Migliorando l’equità del sistema – conclude Martini –, si migliora il Servizio Sanitario Nazionale”. 

Scarica il “Concept paper sul Progetto inibitori di PCSK9: accesso e sostenibilità”. 

Fabio Ambrosino

Bibliografia
1. Martini N, Arca M, Averna M, et al. Concept paper sul Progetto inibitori di PCSK9: accesso e sostenibilità. I supplementi di Politiche Sanitarie 2019.
2. Agenzia Italiana del Farmaco. Determina AIFA n. 172/2017. G.U. Serie Generale n. 31 del 07-02-2017. Disponibile online al seguente indirizzo: http://www.gazzettaufficiale.it/eli/gu/2017/02/07/31/sg/pdf