
Nel 2014 il trial clinico randomizzato PARADIGM-HF aveva documentato la maggiore efficacia di LCZ696 (sacubitril/valsartan), rispetto a enalapril, nei pazienti affetti da scompenso cardiaco (in classe NYHA II-IV) con frazione di eiezione < 40%. Ora, a distanza di tre anni, quali ulteriori insegnamenti si possono trarre da quello studio? Era questo il focus di un affollato simposio tenutosi al 78° Congresso nazionale della Società Italiana di Cardiologia che si è svolto a Roma dal 15 al 18 dicembre. Molte le tematiche trattate: dall’identificazione della strategia terapeutica più appropriata, dalle caratteristiche molecolari degli inibitori del recettore dell’angiotensina II e della neprilisina (ARNI) alle evidenze provenienti da contesti di ‘real life’.
Proprio sull’identificazione dei pazienti a rischio era basato l’intervento del primo relatore Manlio Cipriani, cardiologo del Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano. Si è partiti dalla domanda: il paziente stabile è un paziente a rischio? “Siamo poco abituati a prendere in considerazione i pazienti nella fase più tranquilla della malattia”, ha spiegato Cipriani. “La risposta a questa domanda dipende tuttavia dalla definizione che diamo al concetto di stabilità e dai criteri che utilizziamo per stratificare il rischio”. Gli score, ad esempio, presentano grosse limitazioni: “È una metodologia che ci permette di identificare bene una popolazione ma, applicata al singolo paziente, ci crea dei grossi problemi”.
Cipriani ha quindi descritto il caso di un paziente giunto in ospedale senza aver mai sofferto di episodi di scompenso cardiaco, il quale lamentava solamente una perdita di peso e qualche episodio di dispnea parossistica notturna. “È un paziente che non ha mai avuto bisogno di un ricovero, – ha sottolineato Cipriani – un paziente che si direbbe stabile. Ecco, dopo le analisi si è dovuto sottoporre il paziente ad assistenza ventricolare e, in seguito, a trapianto”. Questo nonostante gli score di rischio fossero negativi. “Cosa possiamo farci con questi score? Assolutamente niente”. Il tasso di mortalità dei pazienti stabili è infatti paragonabile a quello dei soggetti considerati a rischio, o comunque molto elevato. “L’insufficienza cardiaca cronica asintomatica con disfunzione ventricolare sinistra non è (quasi) mai a basso rischio”, ha concluso Cipriani. “I pazienti stabili di oggi sono il reservoir dei pazienti instabili di domani. La disponibilità di trattamenti innovativi con solidi presupposti di efficacia ci obbliga quindi a riconsiderare la terapia in questi pazienti”.
Modificata da Pellicori et al. What proportion of patients with chronic heart failure are eligible for sacubitril–valsartan? European Journal of Heart Failure 2017; 19: 768 – 778.
A seguire si è tenuto l’intervento di Marco Metra, docente di cardiologia dell’Università di Brescia, il quale si è invece soffermato sulle nuove evidenze relative ai farmaci, come sacubitril/valsartan, appartenenti alla classe degli ARNI. “Per la prima volta abbiamo un farmaco che, oltre a bloccare i recettori dell’angiotensina II, inibisce anche la neprilisina, aumentando così i valori plasmatici e l’attività di diversi peptidi ad azione natriuretica, vasodilatante e antipertrofica”, ha commentato Metra. Un meccanismo, questo, che permette di allungare significativamente la sopravvivenza del paziente affetto da scompenso cardiaco. Infatti, in un’analisi statistica realizzata dagli autori del PARADIGM-HF, l’aspettativa di vita è risultata in media di 12,9 anni con la combinazione sacubitril/valsartan, rispetto agli 11,6 anni ottenuti con enalapril. “Un guadagno di un anno e mezzo di vita, – ha sottolineato Metra – e se consideriamo la combinazione sopravvivenza/ospedalizzazione l’allungamento è di 2,1 anni”.
Inoltre, gli ARNI esercitano effetti favorevoli anche in termini di qualità della vita. Ad esempio, in una piccola casistica di due pazienti pubblicata sul Journal of Cardiovascular Nursing, la somministrazione di sacubitril/valsartan è risultata efficace nel migliorare l’equilibrio idro-elettrolitico portando a una riduzione del dosaggio della terapia diuretica, con conseguente miglioramento delle condizioni di vita. “Quindi possiamo dire al paziente che non solo questo farmaco allungherà la durata della sua vita di un anno e mezzo, ma anche che starà meglio”, ha aggiunto Metra. Inoltre, come ha poi concluso il docente dell’Università di Brescia, anche studi che hanno preso in considerazione la severità dello scompenso cardiaco hanno dimostrato che “a prescindere dalla gravità, che si traduce in una diversa mortalità, sacubitril/valsartan vince sempre rispetto all’enalapril”.
Modificata da Okumura N et al. Importance of clinical worsening of heart failure treated in the outpatient setting evidence from the Prospective Comparison of ARNI With ACEI to Determine Impact on Global Mortality and Morbidity in Heart Failure Trial (PARADIGM-HF). Circulation 2016; 133: 2254 – 2262.
Infine, l’ultimo intervento ha spostato l’attenzione dai trial alla pratica clinica. In particolare, Eugenio Roberto Cosentino, internista del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna, ha riportato i risultati di uno studio di coorte – realizzato dal suo centro – relativo a 30 pazienti con scompenso cardiaco a funzione sistolica compromessa (in classe NYHA II e III) e affetti da numerose comorbilità, in cui si è andati a valutare l’effetto clinico del trattamento con sacubitril/valsartan a 6 e 12 mesi. “Rispetto al basale, a 12 mesi non sono state osservate variazioni della pressione arteriosa, la frequenza cardiaca si è ridotta in modo statisticamente significativo, la creatinina è rimasta stabile ed è stato riscontrato un lieve miglioramento della velocità di filtrazione glomerulare”, ha commentato Cosentino.
Anche prendendo in considerazione i ricoveri, è emerso come la combinazione sacubitril/valsartan abbia portato il numero delle ospedalizzazioni da 53 (per un totale di 250 giorni di degenza) nei 12 mesi precedenti l’inizio del trattamento a 0, 12 mesi dopo l’inizio. I parametri ecocardiografici hanno invece documentato, ai 12 mesi, un netto miglioramento della frazione d’eiezione (da 32 ± 5 a 48 ± 9), dei volumi ventricolari, degli indici di disfunzione diastolica e della pressione arteriosa polmonare. “Possiamo affermare quindi – ha concluso Cosentino – che sulla base della nostra esperienza, in un setting di pazienti ambulatoriali sintomatici, il trattamento con sacubitril/valsartan al posto dell’ACE inibitore ha dimostrato come un modello di gestione integrata precoce consenta di intervenire sulla progressione dello scompenso cardiaco, migliorando non solo l’ottimizzazione della terapia ma anche la gestione della patologia con un netto guadagno in termini di ospedalizzazioni evitate”.