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Sindromi coronariche acute: tre step per una corretta gestione della fase post-acuta

Intervista a Gian Francesco Mureddu By 22 Giugno 2023No Comments
Interviste
sindromi coronariche acute

Alla luce del mutamento avvenuto nell’epidemiologia delle sindromi coronariche acute, il cui peso prognostico si è spostato alla fase post-acuta e cronica, si ritiene oggi di cruciale rilevanza clinica mettere a fuoco le migliori strategie di prevenzione secondaria per poter garantire ai pazienti che vanno incontro a eventi di questo tipo gli stessi elevati standard assistenziali ormai consolidati in acuto, anche nella fase post-acuta e a lungo termine.

Con l’aumentare degli studi e del numero di pazienti osservati, i dati da un lato si arricchiscono – si nota per esempio che il rischio di eventi cardiovascolari rimane elevato fino a 5 anni dall’evento indice (1,2) anche nei sopravvissuti liberi da eventi a un anno (3) – e dall’altro si specificano, perché via via si delineano le caratteristiche dei pazienti a rischio residuo molto elevato, che oggi sono definite anche in linee guida europee (4,5).

Ne abbiamo parlato con Gian Francesco Mureddu, responsabile della Cardiologia Riabilitativa dell’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma, autore di un articolo uscito a maggio sul Giornale Italiano di Cardiologia (GIC) in cui questo argomento viene trattato in tutta la sua complessità (6). Attraverso un’accurata revisione della letteratura nazionale e internazionale, gli autori hanno messo in evidenza come, già da vent’anni or sono, alla progressiva riduzione della mortalità intraospedaliera sia corrisposta una mortalità post-ospedaliera, a un anno dall’evento indice, stabile o in incremento (7,8).

Oggi la comunità cardiologica internazionale si trova a dover affrontare una nuova sfida: dopo aver raggiunto ottimi risultati in acuto deve migliorare anche la gestione della fase post-acuta.

Sì, fino ad alcuni anni fa si riteneva che dopo l’intervento in acuto, in ospedale, l’angioplastica primaria e il conseguente trattamento nel primo periodo post-dimissione, il problema fosse risolto. Ci siamo invece resi conto nel tempo che non è così. Paradossalmente, poiché l’angioplastica primaria e le reti dell’infarto funzionano molto bene e salvano sempre più vite, anche in condizioni molto critiche, si è venuta a creare una popolazione di pazienti ad elevato rischio residuo che va seguita a lungo nel tempo: sono pazienti sopravvissuti e sono esposti ancora a rischio cardiovascolare elevato e anche a comorbilità, i quali si presentano quindi con un carico diverso per gli ospedali. I pazienti reduci da sindrome coronarica acuta costituiscono la priorità assoluta per interventi farmacologici e non farmacologici in prevenzione secondaria.

Partendo da dati riportati nell’articolo uscito sul GIC: quali sono gli step da seguire per una corretta gestione dei pazienti reduci da sindromi coronariche acute?

I passi fondamentali sono tre: individuare il paziente, individuare le terapie, formare il territorio. Il primo step è quello di riconoscere e identificare i pazienti, perché non tutti hanno lo stesso rischio. Nell’articolo sono citati i dati dei grandi studi osservazionali internazionali, dei registri, e di due ampi studi italiani, frutto della collaborazione con l’Istituto Superiore di Sanità, basati sul database amministrativo nazionale delle schede di dimissione ospedaliera (SDO), che hanno consentito di tracciare un profilo chiaro dei pazienti con fattori di rischio, differenziando le diverse tipologie di rischio perché diverse sono le strategie terapeutiche (9,10). Sono state distinte due grandi categorie: i pazienti con scompenso cardiaco e i pazienti con rischio aterotrombotico residuo.

Riguardo alla presenza di scompenso cardiaco, sono particolarmente indicativi i risultati di due analisi riportate nell’articolo: uno studio italiano su oltre un milione di pazienti con infarto miocardico acuto complicato da scompenso cardiaco al ricovero (9) e un registro svedese sullo sviluppo tardivo di questa condizione dopo un evento acuto (11).

Lo scompenso cardiaco è il predittore più potente, dopo l’età, di mortalità e di re-ospedalizzazione. Quindi chi ha un infarto complicato da scompenso cardiaco, anche se transitorio, ha una prognosi peggiore. Ma anche chi aveva avuto uno scompenso prima dell’evento indice, in un precedente ricovero o comunque nella sua storia clinica, si porta dietro un peso molto importante e va seguito con attenzione. Nel registro svedese, tra coloro che non avevano scompenso cardiaco in ospedale al momento del ricovero indice, il 9,0% circa sviluppava questa condizione entro 2 anni. Tra quelli in cui era invece già presente, il 31,1% l’aveva anche a 2 anni. L’endpoint composito di sviluppo tardivo di scompenso cardiaco o morte per tutte le cause cresceva dal 16,6% a un anno al 22,4% a 2 anni e fino al 35,8% a 5 anni. Dopo una sindrome coronarica acuta, lo scompenso cardiaco è quindi un indicatore prognostico negativo anche a lungo termine.

Quindi questi pazienti andrebbero riconosciuti ex ante e seguiti in maniera particolare, come anche quelli con rischio aterotrombotico residuo. Cosa s’intende con questa definizione?

La presenza di almeno un fattore tra pregresso infarto miocardico, pregresso ictus ischemico, diabete, vasculopatia periferica, scompenso cardiaco, insufficienza renale comporta un rischio elevato di eventi cardiovascolari maggiori (MACCE) in pazienti reduci da sindromi coronariche acute, anche dopo un anno e fino a 5 anni dopo l’evento, come riportato nel registro svedese. Nell’altro studio italiano basato sulle SDO di 205.290 pazienti, costruito per definire il “peso” del rischio aterotrombotico residuo, indipendentemente dall’età e dalla presenza di scompenso cardiaco, la maggior parte dei fattori di rischio trombotico-ischemico residuo elevato risultava predittore indipendene di morte a 5 anni (10). L’incidenza cumulativa di MACCE in pazienti con elevato rischio ischemico residuo era significativamente maggiore rispetto ai pazienti senza caratteristiche di elevato rischio, sia a 30 giorni dal ricovero indice sia nei pazienti liberi da MACCE a un anno. Quindi pesano i fattori di rischio clinici, ma, nella stratificazione del rischio residuo, sono rilevanti anche le caratteristiche anatomiche legate alle procedure interventistiche, la presenza di malattia coronarica estesa, multivasale, una mancata o incompleta rivascolarizzazione, lesioni lunghe, biforcazioni, stent piccoli, pregresse restenosi. Questo è quanto abbiamo imparato dagli studi d’intervento.

Nell’articolo è riportata una tabella riassuntiva dei predittori di elevato rischio di eventi cardiovascolari dopo sindromi coronariche acute, tratti in parte dal documento di consenso dell’ANMCO.

Sì, i dati ricavati dallo studio basato sull’analisi delle SDO sono stati la base per un importante documento sottoscritto dall’ANMCO, nel quale, già nel 2014 per la prima volta si sottolineava l’urgenza di identificare i pazienti a rischio di recidive e avviarli a strategie di prevenzione secondaria intensive. Gli indicatori del 2014 sono stati oggi revisionati e ampliati, soprattutto nei parametri dell’interventistica coronarica, grazie a conoscenze aggiornate sia degli studi d’intervento che di quelli osservazionali e di registro. Gli indicatori dei fenotipi ad alto rischio dopo sindromi coronariche acute sono sovrapponibili a quelli delle linee guida europee. La tabella è una check-list da comporre alla dimissione del paziente per evidenziare il rischio residuo o “evitabile” di ciascun paziente (6).

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Stabilire il profilo alla dimissione è un passo fondamentale per poter avviare velocemente a percorsi di prevenzione secondaria adeguati alle sue caratteristiche. E oggi posso dire con grande soddisfazione che AGENAS ha inserito nell’ambito della revisione delle reti per infarto anche la rete del post-acuto, proprio prendendo in considerazione questi due indicatori: scompenso cardiaco e rischio aterotrombotico residuo. L’idea è proprio quella di rendere obbligatoria, nel periodo della degenza, l’identificazione dei fattori di rischio dei pazienti per poi inserirli nelle schede di dimissione ospedaliera e tracciare i percorsi post dimissione.

Lo step successivo è quindi l’individuazione della terapia più adeguata. Quali sono i farmaci più indicati per i pazienti con scompenso cardiaco?

Noi cardiologi siamo fortunati perché abbiamo a disposizione molti farmaci efficaci. Per lo scompenso cardiaco abbiamo quattro macrocategorie di farmaci: gli ACE-inibitori e i sartani, spesso oggi sostituiti dalla nuova associazione sacubitril/valsartan, le gliflozine, gli inibitori recettoriali dell’aldosterone e i beta bloccanti. Questi sono i farmaci che garantiscono una prognosi migliore per lo scompenso cardiaco, che prolungano la vita e devono quindi essere prescritti e somministrati ai pazienti.

Quali sono invece i farmaci per la gestione del rischio aterotrombotico residuo?

Questa categoria di rischio comprende varie condizioni cliniche con strategie terapeutiche diverse. Nella prima fase dopo sindrome coronarica acuta c’è la doppia anti-aggregazione piastrinica, con varie opzioni farmacologiche alcune delle quali innovative e molto potenti che devono essere prescritte per almeno un anno. Lo studio PEGASUS ha mostrato che un prolungamento fino a 3 anni per alcuni sottotipi di pazienti offre un importante vantaggio prognostico, creando un nuovo percorso dove la continuità terapeutica è essenziale per garantire l’efficacia. Bisogna però decidere prima della scadenza di un anno se si vuole continuare per i 3 anni: la terapia deve essere continua, avviata subito e mai interrotta, altrimenti non c’è certezza dell’efficacia (12).

In alcune categorie di pazienti, come i polivasculopatici, eccellenti risultati si sono avuti con l’aspirina a basse dosi combinata con un anticoagulante a basse dosi, il rivaroxaban. Lo ha dimostrato lo studio COMPASS, con un miglioramento della sopravvivenza anche a 7-10 anni. Una mediana di efficacia così lunga dopo un infarto è un dato stupefacente, se uno riconosce un paziente del genere può ancora essere curato anche a distanza di anni dall’evento acuto, a differenza della doppia anti-aggregazione (13).

I farmaci ipolipemizzanti sono l’altra pietra miliare della terapia e forse attualmente quella considerata più importante perché agisce su un agente causale dell’aterogenesi stabilizzandola. L’obiettivo primario è raggiungere livelli di C-LDL inferiori ai 55mg/dl e ridotti del 50% rispetto ai livelli basali. Nei pazienti che hanno avuto una recidiva i livelli ottimali sono ancora più bassi, sotto i 40mg/dl, e non è affatto facile raggiungerli. I registri e gli studi internazionali ci dicono che questi obiettivi vengono raggiunti dal 50% circa dei pazienti (14).

Ci sono adesso molte possibilità farmacologiche che vanno in questo senso, come la combinazione tra una statina ad alta intensità ed ezetimibe, da somministrare già nella fase ospedaliera. Poi ci sono dei nuovi anticorpi monoclonali diretti verso la proteina PCSK9 che, somministrati  in aggiunta rispetto alla strategia iniziale, garantiscono quasi sempre il raggiungimento dell’obiettivo.  In caso di intolleranza certa alle statine, allora la strategia può essere la combinazionne di ezetimibe più PCSK9 inibitore. Ma c’è anche un altro nuovo farmaco che non è una statina ma agisce in una catena enzimatica vicina a quella delle statine, quindi sul fegato, che è l’acido bempedoico, forse un po’ meno potente delle statine ma che è utile in caso di intolleranza alle statine o in varia combinazione con altri farmaci per garantire il raggiungimento dei target. Già esistono delle forme farmaceutiche in combinazione con ezetimibe. Quindi abbiamo un panel di farmaci molto esteso a nostra disposizione.

Dopo l’individuazione del paziente e l’assegnazione alla migliore terapia, cosa serve ancora migliorare la gestione della fase post-acuta?

Serve il territorio, e arriviamo al terzo punto che citavo all’inizio. Questi sono pazienti che necessitano di continuità assistenziale perché non è banale seguire queste terapie. Ci possono essere problemi come intolleranze, effetti collaterali, difficoltà del raggiungimento dei target terapeutici. Il primo riscontro negativo della mancanza di una “rete del cronico” sta nell’inadeguatezza dell’aderenza terapeutica, una delle cause principali di riammissione ospedaliera. Per esempio, l’interruzione della terapia con statine o una sua riduzione da alta a moderata intensità è un predittore indipendente di eventi avversi a 5 anni (15). In quest’ottica le associazioni farmacologiche precostituite fino alla polipillola hanno evidenziato una significativa riduzione degli eventi cardiovascolari in prevenzione secondaria (16).

Noi cardiologi ospedalieri abbiamo iniziato tanti anni fa a sollevare il problema, creando ambulatori legati all’ospedale (gli ambulatori dedicati ANMCO), ma c’è bisogno di una rete più ampia che leghi all’ospedale ambulatori sul territorio, con figure preparate come infermieri e medici che devono essere bene informati e in contatto con il cardiologo, perché sono i primi a cui il paziente si rivolge in caso di insorgenza di problemi durante l’assunzione della terapia.

Quale ruolo gioca la cardiologia riabilitativa nel contesto delle sindromi coronariche acute?

Come riportato nel documento dell’AGENAS, è di cruciale importanza che la rete del post-acuto contempli le strutture di riabilitazione cardiologica. Si è visto infatti che i pazienti che dopo la dimissione vanno in riabilitazione hanno una prognosi migliore a lungo termine. Nelle strutture di riabilitazione cardiologica il paziente viene aiutato innanzitutto a riprendersi, a fare esercizio fisico, ma anche a prendere coscienza di quello che gli è capitato, dei farmaci che deve assumere, dell’importanza di seguire una corretta dieta. L’esercizio fisico e l’educazione alimentare sono le terapie non farmacologiche più importanti in questi pazienti. In queste strutture si può inoltre individuare il paziente che ha bisogno di un supporto psicologico per superare l’evento e quindi provvedere.

Ci sono altri aspetti che andrebbero potenziati per garantire una migliore gestione della fase post-acuta?

Ci potrebbero essere di aiuto anche gli strumenti digitali. Per esempio, con il fascicolo sanitario elettronico sarà molto più semplice seguire l’iter di un paziente e controllare il raggiungimento degli obiettivi terapeutici. Si parla tanto di telemedicina, di teleriabilitazione, ma anche questi strumenti devono essere gestiti da personale formato, specializzato e inserito in una rete coordinata. Per finire c’è anche l’aspetto sociale, perché non tutti i pazienti hanno una famiglia in grado di prendersi cura adeguatamente di loro, oppure hanno bisogno di presidi e di assistenza domiciliare. Quindi la rete del cronico deve prevedere anche queste competenze.

Negli altri Paesi questa situazione è affrontata diversamente?

Se si guarda alla letteratura internazionale, per esempio alle Cochrane library, si vede che l’intervento multidisciplinare in cardiologia riabilitativa migliora la prognosi sia dello scompenso cardiaco che delle malattie cardiovascolari e deve quindi essere perseguito. Fa parte appunto di quel percorso di continuità assistenziale che negli Stati Uniti è stato inserito come indicatore per la qualità degli ospedali e per cui sono stati prodotti documenti di consenso volti a migliorare il rapporto costo-efficacia in prevenzione secondaria e a ridurre il peso dei principali costi in sanità: le re-ospedalizzazioni. In Svezia da poco è stato implementato un registro sull’invio dei pazienti in cardiologia riabilitativa che ha già prodotto i primi risultati in termini di costo/efficacia.

Forse i tempi sono maturi anche in Italia per un cambiamento nella gestione della prevenzione secondaria?

Ci auguriamo che oggi anche in Italia le istituzioni preposte scelgano di investire per organizzare questa rete del cronico. Il nuovo documento dell’AGENAS che ho citato all’inizio fa ben sperare in questo senso. È una scelta vincente in termini di costo-efficacia e di risparmio di risorse sanitarie, che assicura continuità assistenziale ai pazienti e garantisce loro una prognosi migliore e una più lunga prospettiva di vita.

Intervista a cura di Fausta Rotondo

Bibliografia

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