
A colloquio con Claudio Rapezzi, Unità Complessa di Cardiologia, Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale, Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, Policlinico S. Orsola-Malpighi, Bologna
Per il cardiologo italiano, quale peso ha il colesterolo nella gestione del paziente a rischio? Qual è il suo commitment nel trattamento dell’ipercolesterolemia al fine di raggiungere i target raccomandati?
Innanzitutto è il cardiologo che da diversi anni si fa carico di gestire il problema dell’ipercolesterolemia nel paziente cardiopatico, diversamente da quanto avveniva fino a 15-20 anni fa quando invece si limitava a gestire la fase acuta di un evento coronarico e demandava a “centri dell’aterosclerosi” o comunque a colleghi lipidologi la gestione della prevenzione nel campo delle dislipidemie. L’era delle statine ha consentito al cardiologo di focalizzarsi essenzialmente nella misura del colesterolo LDL, cercando di abbatterlo a tutti i costi.
Il cardiologo italiano è, credo giustamente, ancora nella filosofia dei target, cioè sa che l’effetto preventivo è correlato al raggiungimento di target e che questi target dipendono fondamentalmente dal rischio cardiovascolare personale del singolo paziente e dalla prossimità rispetto all’evento acuto. Classicamente il cardiologo italiano è consapevole che dopo un evento coronarico è buona norma raggiungere valori di colesterolo LDL <70 mg/dl, valori che sono altrettanto importanti da raggiungere, a prescindere da eventi acuti recenti, nei soggetti che per ragioni metaboliche, tipicamente il diabete, sono a rischio. Ultimamente il cardiologo ha preso coscienza anche del fatto che l’insufficienza renale cronica di per sé, vale a dire indipendentemente dal valore del profilo lipidico, è un importante elemento di rischio che deve essere trattato. In sintesi, quindi, i “cambi di paradigma”, cioè le novità più recenti per il cardiologo, sono:
- la disfunzione renale cronica di per sé, non come fattore di rischio;
- l’obbligo di raggiungere target abbastanza restrittivi, dato che è difficile raggiungere valori di colesterolo LDL <70 mg/dl;
- la consapevolezza che in linea di massima espressioni come “the lower the better” e “the earlier the better” corrispondono a verità.
Ci possiamo ritenere soddisfatti del controllo del colesterolo utilizzando le terapie a disposizione?
No. Anche mettendoci nelle migliori condizioni possibili, cioè di un cardiologo colto, diligente, che cerca di raggiungere i valori target, le principali barriere sono rappresentate da un lato dal paziente e dalla sua compliance, che è ridotta, dall’altro dall’esistenza di effetti indesiderati connessi al trattamento con statine, tipicamente le mialgie con o senza rialzo dell’enzima CPK, che costituiscono i principali deterrenti per il paziente a continuare la terapia. Fra gli elementi che ostacolano il conseguimento dei valori target si va ad aggiungere una spontanea tendenza del paziente e del medico a “farsi degli sconti”, cioè ad abbassare progressivamente il dosaggio della terapia. È efficace il concetto di “emivita della prescrizione” del farmaco antidislipidemico (analogamente all’emivita di un farmaco), per cui a circa 6 mesi-1 anno dalla dimissione circa il 50-60%, se non di più, dei pazienti dimessi con terapia statinica ad alto dosaggio da un centro cardiologico non risultano aderenti al dosaggio prescritto; ad esempio nel caso dell’atorvastatina 80 mg tale posologia ad un anno è presente in realtà nel 30-40% dei pazienti. Esiste quindi un problema di compliance del paziente, di effetti collaterali e di tendenza all’“autosconto” posologico.
Si apre la prospettiva di utilizzare gli anticorpi monoclonali in cardiologia, in particolare grazie agli inibitori del PCSK9: che impatto crede che potranno avere nella gestione dei pazienti ad alto rischio cardiovascolare con ipercolesterolemia?
Relativamente all’utilizzo degli anticorpi monoclonali, presentati e discussi al recente congresso dell’American Heart Association, bisogna dire senza esitazione che si tratta di una classe farmacologica veramente innovativa che potrebbe decisamente cambiare la vita sia del paziente sia del medico. Innanzitutto perché i farmaci si collocano nell’alveo generale della “lotta alle LDL”. Questa linea di intervento verso la riduzione dei valori di colesterolo LDL di fatto ha reso possibile l’unica concreta strategia proponibile al medico e al paziente. Altre strategie, si pensi a quella dell’aumento delle HDL, all’uso dei fibrati o della niacina, hanno dato luogo a risultati insoddisfacenti se non addirittura potenzialmente pericolosi, come nel caso dei “…cetrapib”. Quindi il cardiologo, e più in generale la classe medica, continua ad avere a disposizione farmaci per la riduzione del colesterolo LDL, farmaci che sono rappresentati dalle statine ad alta efficacia, dall’associazione statine + ezitimibe, nonché dagli anticorpi monoclonali per i quali si stanno già conducendo studi a lungo termine di fase 3. Si è infatti compreso che il recettore delle LDL ha una sua vita all’interno della cellula; la probabilità che il recettore ha, una volta che sia stato internalizzato dentro la cellula dopo il suo lavoro, di riemergere in superficie, e quindi di essere riciclato, dipende da una proteina che lo accompagna, denominata PCSK9. Si è documentato con osservazioni di tipo epidemiologico e genetico che soggetti con mutazioni che rendono questa proteina parzialmente efficace o addirittura inefficace hanno valori molto bassi di LDL, dell’ordine di 14-20 mg/dl, e di fatto non hanno eventi cardiovascolari. Questo ha rappresentato il razionale per una strategia farmacologica volta ad abbassare l’efficacia di questa proteina. Fra le varie strategie proponibili, quella degli anticorpi monoclonali è risultata attualmente quella più praticabile, se si tiene conto degli strabilianti miglioramenti dal punto di vista dell’ingegneria farmaceutica connessa con questi farmaci, attualmente disponibili in maniera completamente umanizzata senza di fatto effetti collaterali sensibili. Quindi, nasce una nuova era. Con l’anticorpo monoclonale somministrato per via sottocutanea 1-2 volte al mese si ottengono riduzioni di colesterolo LDL dell’ordine del 70%, con valori assoluti dell’ordine di 80-90 mg/dl. Il che significa una strategia incredibilmente efficace e incredibilmente sicura. Si apre a questo punto il problema di quali pazienti siano i migliori candidati a questa strategia terapeutica e di quando nella loro fase di storia naturale proporla. A questo proposito, ci sono indubbiamente classi di pazienti in cui è già codificata l’indicazione al trattamento con anticorpi monoclonali, come i pazienti con ipercolesterolemia familiare eterozigote, o omozigote ma con residua valenza funzionale di parte del recettore. In questi casi l’anticorpo monoclonale è di fatto l’unica strategia proponibile. Altre classi di pazienti che potrebbero beneficiare del loro utilizzo comprendono i pazienti con chiara intolleranza alle statine, oppure pazienti ad alto rischio che nonostante assumano statine in monoterapia o in associazione con altri antidislipidemici continuano ad avere valori al di fuori del target raccomandato. Qualora gli anticorpi monoclonali entrassero rapidamente nella fase di prescrivibilità, si aprirebbe fin d’ora la possibilità di somministrarli ai pazienti con forme familiari di dislipidemia o con intolleranza alle statine. A mio parere bisogna guardare in avanti, perché in una strategia terapeutica farmacologica che dura tutta la vita del cardiopatico la via di somministrazione sottocutanea, con cadenza periodica (1-2 volte al mese), è la strategia che lega definitivamente il paziente ad un’alleanza terapeutica, che genera meno effetti collaterali e che vince i problemi di compliance. Guardando indietro nel tempo, il paziente è già abituato al concetto di profilassi, ad esempio con la penicillina contro le recidive di reumatismo articolare acuto, laddove la penicillina veniva somministrata per via intramuscolare. Quindi il mix di sostanza farmacologica altamente efficace, di assenza di effetti collaterali, di via di somministrazione che favorisce la compliance costituisce un cocktail tale per cui è facilmente prevedibile in un futuro, magari remoto (cioè qualche anno e non qualche mese) che questa strategia possa divenire il riferimento standard al posto delle statine o in associazione alle statine per controllare i valori di colesterolo LDL.
Il paziente con ipercolesterolemia familiare eterozigote va incontro ad eventi cardiovascolari in età molto precoce, spesso prima dei 50 anni. Inevitabilmente è quindi un paziente che viene gestito dal cardiologo. Qual è la reale consapevolezza del cardiologo rispetto a questa patologia? Quanto è interessato e coinvolto nella diagnosi di ipercolesterolemia familiare eterozigote? E quale potrebbe essere il suo ruolo attivo nell’aumentare il numero di casi diagnosticati?
Mediamente, il cardiologo è scarsamente consapevole dell’esistenza di questa forma di ipercolesterolemia, in quanto tende a considerare l’ipercolesterolemia come un fattore di rischio e non come una malattia. Questo è vero nella stragrande maggioranza dei casi, ma esistono singoli pazienti, numericamente non trascurabili, in cui il colesterolo elevato è l’espressione di una vera e propria malattia del metabolismo lipidico, tipicamente l’ipercolesterolemia familiare e la dislipidemia familiare combinata. L’ipercolesterolemia familiare è una malattia genetica che vede tre geni responsabili: quello del recettore delle LDL, quello dell’apolipoproteina B e quello, più recentemente identificato, della proteina PCSK9. Complessivamente si stima una prevalenza tale per cui 120.000 soggetti in Italia sarebbero affetti da ipercolesterolemia familiare in forma eterozigote, molti meno quelli con forma omozigote. In realtà, dati provenienti dal nord Europa indicano che la prevalenza della malattia non è di 1/500-700 ma potrebbe essere di 1/200-300; se così fosse le cifre aumenterebbero di conseguenza fino ad arrivare a formare una popolazione affetta da tale patologia di circa 200-300.000 soggetti in Italia. Il cardiologo deve entrare nell’ottica di poter riconoscere l’esistenza della malattia, avendo dalla sua la possibilità di diagnosticarla attraverso un approccio clinico. Una delle barriere alla diffusione della diagnosi di ipercolesterolemia familiare è la falsa credenza che per diagnosticarla sia necessario un test genetico. Ciò non è assolutamente vero: per diagnosticare tale patologia occorre (1) che il cardiologo si renda conto che il valore di colesterolo LDL è >190-200 mg/dl, (2) che nella famiglia del paziente vi siano casi con analoghi valori e/o casi che abbiano avuto forme fatali o non fatali di cardiopatia ischemica in età giovanile (cioè prima dei 50-55 anni), o (3) eventualmente che, visitando il paziente, il medico ravvisi la presenza di accumuli, tipo xantomi localizzati tipicamente nel tendine achilleo. Quindi, un buon approccio clinico e anamnestico consente di fare la diagnosi indipendentemente da un test genetico. Al cardiologo la sfida di tornare ad essere, ammesso che abbia abdicato a questa funzione, un internista che diagnostica malattie oltre che un esecutore di linee guida per ridurre i fattori di rischio.