Skip to main content

Scompenso cardiaco, sacubitril/valsartan per pochi o per tanti?

By 21 Gennaio 2019Settembre 17th, 2021No Comments
Dai congressi
Scompenso cardiaco sacubitril/valsartan

La pubblicazione dei risultati del trial PARADIGM-HF e l’ingresso di sacubitril/valsartan nel panorama delle opzioni terapeutiche per il trattamento dello scompenso cardiaco hanno rappresentato un momento di svolta nella gestione di questa condizione (1). Ora, a più di quattro anni dalla presentazione di quei risultati, nuove evidenze supportano l’utilizzo di questa terapia anche nel paziente in regime di ricovero ospedaliero per una riacutizzazione di scompenso cardiaco. Se n’è parlato al simposio “Sacubitril/valsartan: l’imprescindibile valore della terapia farmacologica nello scompenso cardiaco”, tenutosi in occasione dell’ultimo Congresso nazionale della Società Italiana di Cardiologia (Roma, 14 – 17 dicembre 2018).

Nella prima relazione Gianfranco Sinagra, direttore della Struttura Complessa di Cardiologia dell’Azienda Sanitaria Universitaria Integrata di Trieste, ha messo in evidenza la natura dinamica dello scompenso cardiaco, definendolo come “una realtà clinica e biologica progressiva generatrice di rischi”. Tra questi: il rischio che la patologia progredisca, il rischio che insorgano nuove componenti cardiovascolari, il rischio di ospedalizzazioni, il rischio di morte cardiovascolare, il rischio di dover ricalibrare i trattamenti, il rischio di progressione del danno d’organo, il rischio di eventi avversi dovuti alle terapie e altri ancora.
“Solo incidendo su questi rischi possiamo interferire con la biologia alla base della progressione della cardiopatia”, ha sottolineato Sinagra. Per farlo è però necessario andare oltre il concetto di stabilità che si associa ad alcuni soggetti affetti da scompenso cardiaco, come quelli in classe NYHA II (2). “Un paziente che ha avuto un’ospedalizzazione, che mantiene una bassa frazione di eiezione del ventricolo sinistro o che per essere compensato ha bisogno di diuretici non è certamente stabile, anche se dice di sentirsi bene e di non aver avuto bisogno di rimodulare la terapia”.

Al contrario, secondo Sinagra, questi pazienti sono da considerarsi instabili ed esposti a rischi. Ma se alcuni di questi rischi dipendono da fattori non influenzabili, quali l’età e il corredo genetico, altri fattori, come le ospedalizzazioni, il diabete mellito e l’insufficienza renale cronica, possono essere meglio controllati con un trattamento con sacubitril/valsartan. “Il trial PARADIGM-HF ha messo in evidenza 150 morti in meno e oltre 300 ospedalizzazioni in meno nel gruppo trattato con gli ARNI rispetto a quello trattato con enalapril – ha spiegato Sinagra –, e in uno studio il cui campione era composto per il 70% da pazienti in classe NYHA II, quelli che tenderemmo a definire stabili”. È quindi importante che l’apparente stabilità dichiarata dal malato (e metabolizzata dal clinico) non determini un’inerzia a non mutare l’approccio terapeutico. “Sacubitril/valsartan – ha concluso Sinagra – ha la capacità di influenzare favorevolmente i rischi, come la mortalità e le ospedalizzazioni, la percezione della sintomatologia clinica da parte del malato e la progressione del danno d’organo, e di poterlo fare per tutti i quintili delle classi di rischio”.

Nell’intervento successivo, Carlo Mario Lombardi dell’Unità Operativa di Cardiologia dell’ASST Spedali Civili di Brescia ha parlato dell’impiego di questo trattamento nei pazienti ambulatoriali con scompenso cardiaco. “I pazienti che apparentemente possono sembrare più stabili, quelli non precedentemente ospedalizzati – ha spiegato –, sono quelli che hanno un beneficio maggiore da un approccio più aggressivo o da un cambiamento della strategia terapeutica in corso”. I dati del trial PARADIGM-HF hanno infatti dimostrato che nel 33% dei casi la prima manifestazione del peggioramento clinico nei pazienti con scompenso cardiaco cronico è la morte cardiovascolare. “Quando noi vediamo un paziente stabile che lamenta un peggioramento dei sintomi o della capacità funzionale – ha sottolineato Lombardi – dobbiamo pensare che se non facciamo niente la prima manifestazione reale di questo peggioramento potrebbe essere la morte del paziente”.

Lombardi ha quindi illustrato i risultati di un’analisi realizzata su un campione di 52 pazienti con scompenso cardiaco trattati presso gli Spedali Civili di Brescia, tutti in classe NYHA II stabile, con una frazione di eiezione molto bassa (<35%) e senza una storia di ospedalizzazioni, i quali sono stati passati a un trattamento con sacubitril/valsartan. “Dopo sei mesi è stato possibile ridurre significativamente la dose di diuretico, 6 pazienti sono passati dalla classe NYHA II a una classe NYHA I mentre 48 pazienti hanno riferito un miglioramento della qualità vita e della capacità funzionale”.

Infine, Manlio Gianni Cipriani della Struttura Complessa di Cardiologia II dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda Ca’ Granda di Milano ha trattato l’impiego di sacubitril/valsartan nei pazienti recentemente ospedalizzati. In questo senso, un primo problema è – secondo Cipriani – quello di individuare dei criteri utili a definire uno scompenso cardiaco avanzato: “Gli studi che hanno analizzato questo tema hanno reclutato pazienti diversi, come dimostrato dai tassi di mortalità a un anno che variano dal 2% al 48%”.
A prescindere dalla definizione, ha continuato Cipriani, le evidenze disponibili in merito all’impiego di sacubitril/valsartan nei pazienti con scompenso cardiaco avanzato mostrano che questo è fattibile e che in questa classe di rischio il trattamento risulta, in termini assoluti, anche più efficace. “Spesso ciò che preoccupa i clinici è l’ipotensione – ha aggiunto –, ma i risultati dello studio PARADIGM-HF mostrano che trattando i pazienti con pressione sistolica più bassa è possibile persino ottenere risultati migliori (3)”.

Anche Cipriani ha quindi riportato i risultati di una casistica relativa a 33 pazienti con scompenso cardiaco avanzato (classe NYHA III) ricoverati presso l’Ospedale Niguarda Ca’ Granda e sottoposti a trattamento con sacubitril/valsartan, concludendo che “il paziente ospedalizzato può avere dei vantaggi nell’ottimizzazione della terapia medica con ARNI durante il ricovero, anche se nei soggetti più fragili è necessario seguire alcune raccomandazioni quali prestare grande attenzione alla volemia e alla funzione renale, ridurre eventualmente da subito il dosaggio del diuretico, modulare in modo lento e attento il dosaggio iniziale, switchare da beta bloccanti con un maggiore effetto ipotensivo a bisoprololo e sospendere gli alfa bloccanti”. Questi dati confermano le evidenze dei recenti studi PIONEER HF e TRANSITION che hanno confermato la tollerabilità e l’efficacia di sacubitril/valsartan nel paziente ospedalizzato.

Fabio Ambrosino

▼1. McMurray JJV, Packer M, Desai AS, et al. Angiotensin–Neprilysin Inhibition versus Enalapril in Heart Failure. The New England Journal of Medicine 2014; 371: 993 – 1004.
2. Pascual-Figal D, Bayes-Genis A. The misperception of the ‘stable’ heart failure. European Journal of Heart Failure 2018; doi:10.1002/ejhf.1248.
3. Böhm M, Young R, Jhund PS, et al. Systolic blood pressure, cardiovascular outcomes and efficacy and safety of sacubitril/valsartan (LCZ696) in patients with chronic heart failure and reduced ejection fraction: results from PARADIGM-HF. European Heart Journal 2017; 38: 1132 – 1143.