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Cardiomiopatia amiloide correlata alla transtiretina, dal sospetto alla diagnosi

Intervista a Claudio Rapezzi By 16 Settembre 2019Marzo 28th, 2022No Comments
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Cardiomiopatia amiloide

“L’amiloidosi cardiaca è una malattia molto strana. A volte la definiamo persino affascinante, anche se non si dovrebbe mai usare l’aggettivo “affascinante” per una malattia, per rispetto nei confronti dei pazienti. Però la cardiomiopatia amiloide ha caratteristiche tali da impegnare intellettualmente il medico che si accinge a fare la diagnosi. È una malattia fino a qualche anno fa ritenuta rara: ora in realtà stiamo capendo che non è rara in assoluto, ma semplicemente sottodiagnosticata”, spiega Claudio Rapezzi, Direttore della UO di Cardiologia del Policlinico S.Orsola-Malpighi di Bologna e Professore Associato Dipartimento di Medicina Specialistica, Diagnostica e Sperimentale di Alma Mater Studiorium – Università di Bologna. Lo abbiamo incontrato a Parigi in occasione del Congresso annuale dell’European Society of Cardiology.

Cardiomiopatia amiloide correlata alla transtiretina: il problema è nella diagnosi?

“Il problema è dunque la nostra ignoranza, la nostra incapacità di medici di sospettarne la presenza e di fare una diagnosi corretta. La cardiomiopatia amiloide sostanzialmente consiste nel fatto che alcune proteine – due in particolare, la transtiretina prodotta dal fegato e le immunoglobuline prodotte dal midollo osseo – per ragioni in parte conosciute e in parte no vanno incontro a una deformazione strutturale diventando fibrille e come fibrille, quindi polimeri, precipitano nei tessuti e li infiltrano. Per intenderci, la plastica è un polimero. Si forma una sostanza quasi plastica che i tessuti biologici fanno molta fatica a degradare. Le conseguenze sono gravi e riguardano il cuore, il sistema nervoso periferico e in alcuni casi anche quello centrale ma più raramente, l’intestino, il vitreo. Delle due principali forme di amiloidosi che riguardano il cuore, quella da transtiretina negli ultimi anni ha ricevuto un interesse incredibilmente crescente, anche perché finalmente si affaccia all’orizzonte una terapia concreta. Esistono due forme di questa sottospecie di amiloidosi: una forma ereditaria dovuta ad una mutazione del gene che codifica per questa proteina e una forma “wild type” che – diciamolo subito – riguarda soprattutto i pazienti maschi sopra ai 60-65 anni di età e ha il massimo dell’espressione addirittura nell’anziano. L’età media dei pazienti trattati nei centri di riferimento, per intenderci, è 75-80 anni”.

Come si passa dal sospetto alla diagnosi vera e propria?

“Nella forma “wild type” l’interessamento riguarda costantemente il cuore e in metà dei casi circa anche il ligamentum carpale, quello della cosiddetta sindrome del tunnel carpale. Il paziente affetto sviluppa progressivamente segni di scompenso, quindi affanno, gambe gonfie, ridotta tolleranza all’esercizio. Spesso compaiono aritmie, fibrillazione atriale oppure blocchi atrioventricolari con necessità di impianto di pacemaker. Il bravo cardiologo quindi di fronte a un paziente fondamentalmente maschio e anziano che ha segni di scompenso e aritmie e che ha all’ecocardiogramma – ecco il punto clou – un’apparente ipertrofia del ventricolo sinistro laddove invece la cavità del ventricolo sinistro non è dilatata, deve sospettare (in assenza di altre cause ovvie) la presenza di amiloidosi cardiaca. Altri segni consentono di rafforzare il sospetto, per esempio un elettrocardiogramma senza ipertrofia, quindi in apparente contrasto con l’ipertrofia riscontrata nell’ecocardiogramma. Se poi questo paziente ti racconta una storia di sindrome del tunnel carpale, in genere risalente a qualche anno prima, magari bilaterale, magari già operata, ecco che 2 più 2 incomincia a fare 5, non più 4, e quindi il sospetto si rafforza. Qualche anno fa l’unico modo per arrivare a una conferma sicura della diagnosi – a valle di un sospetto – era di fare una biopsia dei tessuti sospetti, quindi nella fattispecie una biopsia del cuore. La biopsia endomiocardica si continua a fare tranquillamente, è una procedura abbastanza sicura ma è comunque una procedura invasiva che presenta qualche rischio, rischio che non sempre il paziente accetta. La grande novità degli ultimi anni è stata aver capito che la “banale” scintigrafia ossea – che da tanto tempo facciamo di routine per capire se ci sono metastasi ossee da carcinoma della prostata oppure lesioni di natura ortopedica o reumatologica – a fronte di un deposito di amiloidosi di transtiretina nel cuore registra una positività nel miocardio. Cioè il tessuto del miocardio diventa talmente “avido” del tracciante osseo utilizzato per la scintigrafia (in Italia il più utilizzato è il DPD) che addirittura il cuore assorbe tutto il tracciante, tanto che le ossa si faticano a distinguere. Quando un soggetto ha questo comportamento e al tempo stesso non ha nel sangue i segni dell’altra forma di amiloidosi, quella ematologica prodotta dalle immunoglobuline (la qual cosa si capisce con un banale prelievo di sangue e di urine), la diagnosi è fatta.
Lo stesso tipo di ragionamento – anzi, addirittura più facile – avviene nelle forme familiari. Qui l’età media dei pazienti è in media più bassa (ma non necessariamente) e oltre allo standard diagnostico non invasivo rappresentato dalla scintigrafia ossea ce n’è un altro da utilizzare, che è la ricerca di mutazioni geniche. Che è comunque da fare, perché anche nel paziente anziano a cui alludevo prima è bene alla fine sapere se si tratta di una forma “wild type” o di una cardiomiopatia amiloide ereditaria, anche per avviare un counseling familiare”.

David Frati