
La gestione del paziente con tromboembolismo venoso (TEV) è una realtà in continua evoluzione: qual è il ruolo dei NOAC in questo processo? Cosa ci dice l’evidenza? In quali pazienti la durata della terapia anticoagulante dovrebbe essere estesa e perché? E come affrontare la complessità di un paziente oncologico con TEV? Di questo e di altro si è discusso nell’affollatissimo simposio satellite “Transforming patient care in VTE – the role of NOACs”, svoltosi nell’ambito del congresso annuale dell’European Society of Cardiology (ESC), in corso a Monaco di Baviera.
Stavros V. Konstantinides (Center for Thrombosis and Hemostasis – University Medical Center, Mainz) ha innanzitutto posto l’accento su una delle questioni più importanti sul tappeto, la durata della terapia anticoagulante: “Ogni paziente con TEV dovrebbe ricevere come minimo 3 mesi di terapia anticoagulante. E dopo questo periodo, che può essere esteso a 6 mesi, i clinici devono decidere se continuare la terapia anticoagulante o interromperla a seconda della situazione e delle caratteristiche del paziente. Il TEV è una patologia cronica, e questo è chiaramente indicato dai tassi di recidiva a medio e lungo termine nei pazienti che interrompono la terapia anticoagulante. Si è anche notato che dopo l’interruzione della terapia anticoagulante il rischio di recidiva è indipendente dalla durata della terapia anticoagulante effettuata. La questione quindi non è se i nostri pazienti con TEV debbano ricevere 3,4,6 o 18 mesi di terapia anticoagulante: la questione è se debbano riceverla a tempo indeterminato o no. Dopo 3-6 mesi di terapia il clinico deve mettere sulla bilancia il rischio di TEV ricorrente e il rischio di sanguinamenti e prendere una decisione”.
Cosa abbiamo imparato dai trial randomizzati effettuati finora sui NOAC? Se lo è chiesto Alexander “Ander” Cohen (Vascular Medicine/Haematology, Guy’s and St. Thomas’ Hospitals, King’s College London), che ha concluso: “Tutti i NOAC si sono dimostrati non inferiori a eparina a basso peso molecolare (LMWH)/warfarin nel ridurre il rischio di TEV e di decessi TEV-correlati, ma hanno mostrato differenti profili relativamente al sanguinamento. Con apixaban il rischio di sanguinamenti maggiori e sanguinamenti non maggiori clinicamente rilevanti (CRNM) è significativamente ridotto rispetto a LMWH/warfarin. Apixaban in monoterapia ha un’efficacia sovrapponibile alle terapie di combinazione, con rischio di sanguinamento maggiore ridotto sin dai primi 7 giorni di trattamento, e ha dimostrato di ridurre la quantità e la durata delle riospedalizzazioni. Le linee guida infatti oggi suggeriscono l’utilizzo di NOAC al posto di LMWH/VKA (American College of Chest Physicians) o lo raccomandano come alternativa al trattamento con LMWH/VKA (European Society of Cardiology) nei pazienti con TEV non oncologici”.
Come selezionare i pazienti da avviare alla terapia anticoagulante prolungata? Secondo David Jiménez (Departamento de Neumología, Hospital Universitario Ramón y Cajal, IRYCIS, Madrid) “I candidati migliori sono i pazienti con TEV non provocato già sottoposti a terapia anticoagulante per un periodo di 3-12 mesi, i pazienti che non hanno avuto un sanguinamento maggiore nei primi 3 mesi di trattamento, i pazienti in cui il rischio di TEV ricorrente è considerato più rilevante di un episodio di sanguinamento maggiore”. La chiave di tutto dunque è la valutazione rischio-beneficio: ma come sta cambiando e perché? Ha continuato Jiménez: “È l’evidenza che sta modificando la percezione dei clinici su rischi e benefici di una terapia anticoagulante prolungata: NOAC e VKA sono stati confrontati a placebo nella terapia anticoagulante a lungo termine dei pazienti con TEV e si sono dimostrati tutti superiori a placebo nel ridurre il rischio di TEV ricorrente, con diversi profili di sanguinamento. L’aspirina non è considerata una ragionevole alternativa alla terapia anticoagulante nei pazienti che necessitano di un trattamento a lungo termine. È stato dimostrato un ridotto rischio di sanguinamento con i DOAC rispetto ai VKA nel trattamento del TEV. Insomma, il profilo di rischio-beneficio sta cambiando”.
A Giancarlo Agnelli (Medicina Interna e Cardiovascolare – Stroke Unit, Università di Perugia) il compito di occuparsi dei pazienti oncologici con TEV, una popolazione molto ampia. “Nei trial di Fase III sui NOAC in media osserviamo un 3-10% di pazienti con cancro, ma nella nostra pratica quotidiana la percentuale è di circa il 20%. E si tratta di pazienti complessi: le interazioni tra farmaci possono essere clinicamente molto rilevanti e le insufficienze epatiche e renali sono molto comuni. I dati che ricaviamo dai trial che s sono occupati di questa popolazione – AMPLIFY, EINSTEIN-DVT, EINSTEIN PE, HOKUSAI VTE CANCER, RE-COVER I & II – ci suggeriscono che i NOAC possano diventare un’alternativa alla terapia anticoagulante convenzionale nei pazienti oncologici on TEV. I trial in corso – CASTA-DIVA, CONKO-011, ADAM VTE, CARAVAGGIO (questi ultimi specificatamente su apixaban) – ci forniranno sicuramente nei prossimi anni altre essenziali informazioni sul ruolo potenziale dei NOAC in questa popolazione a rischio”.
David Frati