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ESC 2016: migliorare l’outcome nei pazienti con scompenso cardiaco e ridotta frazione di eiezione

By 19 Settembre 2016Settembre 15th, 2021No Comments
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Il simposio “Optimizing outcomes in patients with HFrEF: evidence and clinical experience sharing” svoltosi al Congresso dell’European Society of Cardiology di Roma ha raccolto tre casi clinici complessi e molto diversi tra loro, in grado di richiamare l’attenzione sulle molte facce diverse dello scompenso cardiaco e delle sue comorbilità, le quali giocano un ruolo particolarmente rilevante, trattandosi per lo più di pazienti anziani, e quindi sull’opportunità di adattare terapie sempre più confezionate ad hoc sui bisogni del singolo paziente. Il paziente scompensato non è, tendenzialmente, un paziente stabile: alcuni presentano una sintomatologia lieve, altri molto più grave; alcuni vengono gestiti ambulatorialmente, altri – come nei casi presentati qui di seguito – vengono ospedalizzati.

John McMurray (Queen Elizabeth University Hospital, Glasgow) ha discusso il caso clinico di un ex operaio pensionato dei cantieri navali di Glasgow, di 73 anni, ricoverato per edema polmonare, e con trascorsi di infarto del miocardio (2004) e bypass aorto-coronarico (2006), associato ad uno stato ipertensivo, probabilmente dovuto anche – ha sottolineato McMurray – al fumo e allo stress per la disoccupazione sempre più diffusa nella zona di Glasgow. Al ricovero, il paziente presentava fibrillazione atriale con dilatazione ventricolare sinistra e marcata riduzione della funzione sistolica. Aveva risposto al diuretico e.v., alla digossina ed era in terapia con ACE inibitore. La frazione di eiezione ventricolare sinistra era dell’11% e l’ecocardiogramma evidenziava grave disfunzione sistolica. Sospesa l’amlodipina, il paziente era stato switchato da aspirina a un nuovo anticoagulante orale. Cosa fare dunque, evitando se possibile di rivoluzionare la terapia introducendo contemporaneamente cambiamenti diversi, cosa che McMurray sconsiglia? Confrontandosi con l’audience, che ha potuto esprimere il proprio parere attraverso il voto, è emersa la convenienza dello switch alla terapia con sacubitril/valsartan, basandosi anche sulle recenti evidenze introdotte dallo studio PARADIGM-HF. Quale dosaggio di sacubitril/valsartan era consigliabile nel caso in questione e quanto prima bisognava smettere l’ACE inibitore? Trentasei ore è l’intervallo sufficiente; dopo sei settimane il paziente assumeva sacubitril/valsartan alla dose di 97/103 mg bid, avendo ripristinato l’euvolemia, cioè la corretta quantità di flusso sanguigno corporeo, presentando una frequenza cardiaca di 72 b/min, con parametri pressori nella norma. L’ex portuale è stato seguito a lungo, adattando nel tempo la terapia. È evidente che ogni paziente evolve in modo personale e che ciò comporta una continua sfida terapeutica. Dal caso emerge anche la necessità di prestare attenzione all’aggravarsi dell’ipotensione, che può verificarsi in associazione ad altre terapie concomitanti non indispensabili, mentre la riduzione del diuretico può facilitare la giusta titolazione. Il caso dimostra inoltre che è possibile somministrare una “triplice terapia”.

Burkert Pieske (Department of Internal Medicine and Cardiology Charité – Universitätsmedizin Berlin) ha presentato il caso clinico di un uomo di 58 anni, fumatore, iperteso e dislipidemico, ricoverato in pronto soccorso per l’acutizzarsi di una storia di scompenso cardiaco da 4 anni, in seguito a miocardiopatia ischemica (frazione di eiezione 25%, classe NYHA II-III). Al ricovero, il paziente presentava insufficienza cardiaca biventricolare scompensata, pressione arteriosa 105/70 mmHg, frequenza cardiaca 75 b/min, dispnea da decubito, soffio olosistolico apicale di grado 3/6, congestione polmonare, edema bilaterale, ipoperfusione periferica e oliguria e una frazione di eiezione del 25%. Si iniziava terapia con levosimendan e.v., strategia terapeutica molto in voga nei Paesi di lingua tedesca, ricompensandolo. Per stabilizzarlo, veniva quindi scelta l’ipotesi di impiantare un defibrillatore biventricolare, ricoverandolo in unità coronarica. Alla dimissione, al paziente veniva prescritta terapia con sacubitril/valsartan 100 mg e, una volta stabilizzato, veniva alzata la titolazione a 200 mg, come da linee-guida, controllando al contempo la carenza di ferro.

Faiez Zannad (Inserm, Université de Lorraine, Vandoeuvre lès Nancy) ha illustrato il caso di un uomo di 76 anni, obeso ed iperteso, diabetico da 10 anni, in trattamento con metformina 1000 mg/die, amlodipina 5 mg/die e ramipril 5 mg/die, ricoverato in pronto soccorso per dispnea acuta e pregresso dolore toracico, durato un paio d’ore. Gli esami consentivano di stabilire un infarto miocardico 4 giorni prima ed uno scompenso cardiaco con ridotta frazione di eiezione di origine ischemica. Purtroppo, la sopravvivenza a 5 anni di pazienti scompensati con diabete di tipo 2 è molto bassa (18%), rispetto a quella dei non diabetici (50%). La particolarità del caso consisteva nella compromissione della funzione renale del paziente. Anche per questo la terapia con ramipril veniva sostituita con quella con sacubitril/valsartan, prendendo inoltre in considerazione l’ipotesi di sostituire la metformina con l’empagliflozin. Traendo le fila dei casi presentati, emerge che i benefici della terapia con sacubitril/valsartan sono quelli evidenziati dai risultati del trial PARADIGM-HF, vale a dire restano costanti indipendentemente dalla severità dei sintomi e perfino dal rischio stimato, assai alto – come abbiamo visto, ad esempio – nel caso di pazienti diabetici. Sembra importante uptitrare il dosaggio del nuovo farmaco gradualmente – come ha sottolineato Michele Senni, moderatore del simposio –, così da ridurre il problema dell’ipotensione, gestibile in ogni caso, per esempio, riducendo il dosaggio dei diuretici o interrompendo farmaci come i nitrati ed i calcio-antagonisti. Anche l’iperkaliemia risulta meglio gestibile col nuovo farmaco, così come la progressione dell’insufficienza renale.