
Si è conclusa da poco a Rimini la 53° edizione del Congresso nazionale dell’Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri (ANMCO). Il programma scientifico è stato come sempre molto ricco e tra le sessioni che hanno inaugurato la prima giornata del Congresso una particolare menzione va fatta per il simposio congiunto “ESC-ANMCO Joint symposium new challenghs for cardiology community”, moderato da Furio Colivicchi, Presidente ANMCO, Ciro Indolfi, Presidente della Società Italiana di Cardiologia e Stefano Urbinati, Presidente dell’Italian Federation of Cardiology.
Il simposio ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Barbara Casadei, già Presidente dell’European Society of Cardiology e docente presso l’Oxford University. Casadei, in collegamento da Oxford, ha presentato una relazione sul gender gap in cardiologia, in termini di leadership e possibilità di carriera. “La presenza di poche donne in cardiologia – ha spiegato – è un problema culturale ma anche economico, legato in modo inversamente proporzionale ai salari medi dei cardiologi”. Ad esempio, se si osserva la distribuzione delle cardiologhe in Europa si nota come in Inghilterra ci siano relativamente poche cardiologhe rispetto ad alcuni paesi dell’est Europa in cui il numero è altissimo. “Ma questo numero alto non necessariamente è indice di emancipazione”, ha sottolineato Casadei.
In che misura la carriera delle cardiologhe progredisce? Cosa influisce sulla progressione? Il glass-ceiling index prodotto recentemente da The Economist – un parametro che misura la variazione nel tempo della percentuale di donne con progressione di carriera – mostra enormi differenze tra i 29 paesi presi in esame. Alcuni, come Islanda, Svezia, Norvegia e Finlandia, hanno sempre mantenuto un livello di emancipazione femminile elevato e stabile nel tempo mentre altri, come l’Italia, sono rimasti stazionari a metà graduatoria. Altri ancora, invece, hanno visto forti cambiamenti in negativo: “L’Ungheria ad esempio, dopo un cambio di governo, ha visto scendere la propria posizione dal 9° posto del 2016 al 24° posto – ha spiegato Casadei – dimostrando come il ruolo e il peso delle donne nel mondo del lavoro sia fortemente influenzato dall’approccio culturale. […] Ma i numeri di per sé non vogliono dire molto se non sono associati anche alla qualità delle posizioni e al supporto dato soprattutto in quelle di leadership”.
I falsi miti legati al tema del gender gap in cardiologia, ha spiegato Casadei, riguardano principalmente due aspetti: la meritocrazia e la responsabilità. La prima si ritiene esistere in funzione del solo talento mentre è invece legata anche alle opportunità, le quali sono offerte meno frequentemente alle donne rispetto agli uomini. Per quanto riguarda il senso di responsabilità, invece, si ritiene che le donne, spesso considerate meno ambizione degli uomini, l’avrebbero più sviluppato in ambito familiare che lavorativo. L’ESC pochi anni fa ha somministrato un questionario in diversi Paesi per dimostrare se queste differente fossero reali e se queste idee si potessero in qualche modo giustificare. “I dati hanno dimostrato che le aspirazioni degli uomini e delle donne erano alte e praticamente identiche, con poca differenza anche in termini di ambizione (self-efficacy in career) e senso di responsabilità verso la professione”.
#ANMCO2022 | Gender gap in cardiology (career) is cultural, not physiological. Discrimination and paternalism have bene demonstrated. Awareness is the first step.@Barbara_Casadei at @escardio/@_anmco joint symposium. pic.twitter.com/4P2JuQ8lR3
— Cardioinfo (@Cardioinfo_it) May 19, 2022
La relazione di Casadei è poi proseguita approfondendo l’importanza di un equo incoraggiamento alla professione come soluzione al problema del gender gap in cardiologia, analizzando come questo vari in base soprattutto all’area geografica di provenienza. Per esempio, il sentimento di burn-out aumenta nelle regioni est e sud europee dove, afferma Casadei, “il supporto istituzionale è minore”, ed è maggiore nelle donne (rispettivamente, 45% e 41%) rispetto agli uomini (35%, 31%). “Nel campo del lavoro – ha concluso la docente dell’Oxford University – le differenze percepite tra uomini e donne non sono fisiologiche ma culturali. Il 90% delle donne che lascia il lavoro non lo fa per questioni familiari o per i figli. Lo fa perché non si sente apprezzata o non ha prospettive di benessere nell’arco della vita lavorativa. Discriminazioni e paternalismo nei confronti delle donne, e anche di altre minoranze, sono un dato di fatto e ampiamente dimostrati. Nonostante ciò abbiamo normalizzato questi comportamenti. La consapevolezza che invece non sono normali è il primo passo verso l’equità”.
La relazione di Casadei si è quindi conclusa con una citazione da un articolo di Michelle Ryan pubblicato su Nature, in cui si legge: “Le buone intenzioni non sono sufficienti per realizzare il cambiamento, né lo sono i numeri, la formazione non lo è e non sono giustificate opinioni troppo ottimistiche che suggeriscono che con il tempo le ‘cose si sistemeranno da sole’. Il cambiamento richiede il sostegno delle istituzioni, incentivi adeguati e interventi supportati dalle evidenze”.
Giada Savini