A cura di Alberto Menozzi, U.O. Cardiologia dell’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma
Il primo studio, presentato da Ronald Lacro, ha confrontato losartan vs atenololo in pazienti (bambini o giovani adulti) con sindrome di Marfan.
Nei pazienti con sindrome di Marfan, la principale causa di morte è costituita dalla dissezione aortica. Lo studio ha randomizzato 608 pazienti (arruolati in 21 centri) a losartan oppure ad atenololo (i beta-bloccanti rappresentano infatti lo standard-of-care nella maggior parte dei centri). L’endpoint primario dello studio era rappresentato del grado di dilatazione della radice aortica a 3 anni ottenuto mediante uno score denominato “aortic root z score” che viene calcolato dal diametro massimo della radice aortica indicizzato per la superficie corporea.
I risultato dello studio hanno mostrato una equivalente capacità da parte dei due farmaci di ridurre la dilatazione della radice aortica indicizzata per la superficie corporea (-0.139 ± 0.013 unità/anno nel gruppo atenololo vs -0.107 ± 0.013 unità/anno nel gruppo losartan; P=0.08). Anche gli endpoint secondari quali chirurgia sull’aorta, dissezione aortica, morte e il loro composito non sono risultati differenti tra i due gruppi.
Lo studio INHERIT, invece, è uno studio multicentrico, randomizzato e in doppio cieco condotto in Danimarca che ha randomizzato 133 pazienti con diagnosi di cardiomiopatia ipertrofica a losartan 100 mg/die o placebo. L’endpoint primario era la variazione della massa ventricolare sinistra dopo 12 mesi valutata mediante risonanza magnetica o tomografia computerizzata. I risultati dello studio non hanno mostrato differenze in termini di variazione della massa ventricolare sinistra tra losartan e placebo (differenza media 1 g/m2, P=0.60). Analogamente, anche riguardo agli endpoint secondari (massimo spessore parietale, fibrosi ventricolare sinistra e capacità funzionale) non sono state evidenziate differenze significative.
Il terzo studio riguarda i pazienti con insufficienza mitralica funzionale di eziologia ischemica, nello specifico il miglior trattamento dei pazienti con insufficienza mitralica ischemica di grado moderato con coronaropatia critica ed indicazione a bypass aortocoronarico (BPAC). Lo studio ha infatti randomizzato 301 pazienti con insufficienza mitralica su base ischemica a BPAC isolato oppure a BPAC con associato gesto di riparazione della valvola mitrale. L’endpoint primario dello studio era l’indice del volume telediastolico del ventricolo sinistro dopo 1 anno dall’intervento (calcolato con uno modello statistico che includesse la mortalità). I risultati dello studio non hanno mostrato differenze tra le due strategie chirurgiche in termini di endpoint primario (P=0.61), di mortalità a 12 mesi (6.7% nel gruppo BPAC + riparazione mitralica vs 7.3% nel gruppo BPAC isolato; P=0.81). Nei pazienti sottoposti al gesto sulla mitrale è stata evidenziata una riduzione della percentuale di insufficienza mitralica severa o moderata a 12 mesi (11% vs 31%; P<0.001) ma al prezzo di un più lungo tempo di circolazione extracorporea, un recupero funzionale più tardivo e, soprattutto, un incremento degli eventi neurologici. Nessuna differenza è stata evidenziata per quanto riguarda mortalità, eventi cardiaci e cerebrovascolari maggiori, ricoveri ospedalieri, status funzionale e qualità di vita.
Pertanto, in pazienti con mitrale ischemica di grado moderato, il ricorso alla riparazione chirurgica della valvola in associazione a BPAC non pare migliorare la prognosi ad 1 anno. L’eventuale impatto a lungo termine della riduzione della prevalenza di insufficienza mitralica moderata o severa ottenuta con l’intervento non è nota al momento e necessita di un follow-up prolungato.