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Procedure salvavita nelle donne: meno frequenti e con una maggiore mortalità intraospedaliera

A cura di Livia Costa By 28 Marzo 2022No Comments
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Procedure cardiache salvavita quali impianti di pacemaker, posizionamenti di stent o sostituzioni di valvole cardiache sono meno frequenti nelle donne e, quando queste vi sono sottoposte, il rischio di mortalità intraospedaliera è più elevato che per gli uomini. Sono questi i risultati principali di uno studio condotto negli Stati Uniti su differenze di genere e di etnia in merito agli outcome delle sette più comuni procedure cardiache, i quali saranno presentati al congresso ACC.22 dell’American College of Cardiology.

Nischit Baral del McLaren Flint Hospital in Michigan ha inoltre aggiunto che le popolazioni di colore sono meno soggette di quelle caucasiche a queste procedure. “I dati non evidenziano una maggior mortalità ospedaliera per i soggetti di colore che siano stati sottoposti a queste procedure, ma il campione potrebbe essere troppo poco rappresentativo per questo dato”.

Nonostante tali procedure vengano eseguite comunemente in ospedale, e sempre più frequentemente, vi sono pochi dati profilati per genere ed etnia. Gli studi precedentemente condotti si limitavano a una singola procedura, come l’inserimento di stent cardiaci. Baral e i colleghi hanno deciso di estendere l’analisi agli outcome delle sette più comuni procedure cardiache per cogliere ogni disparità di genere ed etnia. Per far questo, hanno analizzato i dati dal 2016 al 2019 del National Inpatient Sample (NIS), un ampio database pubblico che raccoglie dati in forma anonima da più di 7 milioni di ricoveri ospedalieri l’anno in tutti gli Stati Uniti.

Nel triennio preso in esame sono state registrate più di 2 milioni di ospedalizzazioni per procedure cardiache, di cui il 62% su soggetti di genere maschile e il 38% su soggetti di genere femminile. Le donne, in media, avevano circa tre anni più degli uomini (età mediana di 71,5 anni per le donne e di 67,7 anni per gli uomini) e uno score leggermente più alto sull’indice che misura la severità della patologia. Dopo aver controllato fattori quali età, genere, etnia, gravità della patologia, posizione dell’ospedale e reddito, i ricercatori hanno riscontrato una mortalità ospedaliera maggiore del 13% per le donne sottoposte a procedure salvavita rispetto agli uomini. Indipendentemente dal genere, la stragrande maggioranza dei pazienti sottoposti a procedure erano caucasici (77%), mentre solo il 9,6% erano afroamericani, il 7,4% ispanici, il 2,4% asiatici e il 3,4% appartenenti ad altre etnie.

Baral ha sottolineato che lo studio lascia ancora molte questioni aperte sul motivo per cui le donne siano sottoposte a meno procedure degli uomini e abbiano più probabilità di morire in ospedale. Ha poi aggiunto che i sintomi di una cardiopatia si presentano spesso in maniera atipica nelle donne, il che potrebbe spiegare perché siano sottoposte a procedure salvavita più tardi. Ad esempio, le donne accusano meno frequentemente degli uomini dolore al petto come sintomo più evidente di infarto miocardico. Più spesso avvertono dolore in altre parti del corpo quali mandibole, schiena, addome o braccia e presentano sintomi quali fiato corto, nausea o bruciore di stomaco. Inoltre, un pregiudizio inconscio o il presupposto che le donne siano meno soggette degli uomini a patologie cardiache potrebbe impedire loro di essere sottoposte tempestivamente a queste procedure.

“I risultati del nostro studio – ha spiegato Baral – dovrebbero richiamare i medici a una maggior consapevolezza circa la possibilità che le cardiopatie si presentino in modo differente nel genere femminile e a una maggior attenzione nei confronti di sintomi atipici nelle loro pazienti, che potrebbero predire un infarto miocardico. Per poter migliorare gli outcome complessivi nella popolazione femminile dovremmo inoltre lavorare affinché le donne siano debitamente sottoposte alla procedura cardiovascolare più adeguata e in tempo, e trattate secondo gli standard di cura più elevati”. Baral ha quindi concluso che “sono necessarie ulteriori ricerche per attestare se le differenze razziali o di etnia incidano in maniera cospicua sul tasso di mortalità post-procedurale.”

Livia Costa