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La sindrome coronarica cronica stabile dopo il trial ISCHEMIA

By 25 Maggio 2020Settembre 14th, 2021No Comments
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sindrome coronarica cronica

Ci sono casi in cui l’adozione di una specifica opzione terapeutica si diffonde in modo spontaneo, anche in assenza di prove solide che ne dimostrino la superiorità rispetto ai trattamenti standard. Un esempio in questo senso riguarda l’impiego di una strategia invasiva, basata su un esame angiografico e conseguente rivascolarizzazione, nei pazienti con sindrome coronarica cronica (CCS) stabile. Una pratica, questa, diffusasi in modo capillare tra i cardiologi interventisti a causa dell’elevata percentuale di successo e il ridotto tasso di complicanze peri-procedurali. Ma questa scelta porta veramente dei benefici rispetto alla terapia medica?

Fornire una risposta definitiva a questa domanda era l’obiettivo del trial ISCHEMIA, i cui risultati principali, presentati lo scorso novembre nel corso del meeting annuale dell’American Heart Association e pubblicati in seguito sul New England Journal of Medicine, hanno messo in evidenza come l’opzione invasiva non porti in realtà alcun vantaggio significativo nel trattamento di questi pazienti (1). Risultati a cui si sono aggiunti, di recente, quelli di alcune sottoanalisi presentate nel corso del congresso virtuale dell’American College of Cardiology, da cui sono emerse ulteriori evidenze a supporto delle conclusioni dello studio principale.

Il trial ISCHEMIA sembra quindi chiudere una questione aperta da più di quarant’anni, da quando l’angioplastica coronarica è entrata a far parte del ventaglio delle opzioni terapeutiche a disposizione del cardiologo interventista. Prima di questo trial, tuttavia, altri studi – il COURAGE, il BARI 2D e, più recentemente, il FAME 2 – avevano già preso in considerazione la disputa, fallendo, con scelte metodologiche diverse, nel dimostrare un vantaggio dell’opzione invasiva rispetto a quella medica (2,3,4). Solo uno studio monocentrico e una metanalisi avevano avuto un esito opposto, individuando una riduzione della mortalità nei pazienti trattati mediante rivascolarizzazione (5,6).

Rispetto agli studi precedenti, il trial ISCHEMIA si caratterizza però per l’elevata numerosità del campione e per l’impianto metodologico utilizzato. Inizialmente, ad esempio, con l’obiettivo di garantire uno standard di qualità molto elevato i ricercatori avevano deciso di reclutare i pazienti solo sulla base di un’evidenza di ischemia miocardica ottenuta mediante test di imaging. La lentezza nell’arruolamento, tuttavia, aveva poi costretto i ricercatori a includere anche una parte di soggetti con un’ischemia documentata con test da sforzo. In modo simile, a causa della bassa incidenza di eventi, gli autori sono stati costretti ad ampliare in corso d’opera l’endpoint primario dello studio, aggiungendo gli attacchi cardiaci resuscitati e le ospedalizzazioni per angina instabile e scompenso cardiaco ai parametri previsti inizialmente: mortalità cardiovascolare e infarti miocardici. L’endpoint secondario, invece, era costituito da una misura composita di morte per cause cardiovascolari o infarto miocardico e qualità della vita angina-correlata.

Il campione di studio finale era composto da 5.179 pazienti con ischemia miocardica moderata o severa, identificata nel 75% dei casi con un test di imaging e nel 25% con un test da sforzo, provenienti da 320 centri distribuiti in 37 Paesi. Rispetto alla popolazione reclutata inizialmente (N=8.518) sono stati esclusi 3.339 pazienti perché risultati, a un esame di angio-TC coronarica, non abbastanza gravi o troppo compromessi. In particolare, 1.350 di questi non avevano un’ischemia moderata o grave e 1.218 non avevano una lesione coronarica  significativa, mentre 434 sono risultati affetti da malattia del tronco comune. I 5.179 pazienti con sindrome coronarica cronica stabile inclusi nello studio sono stati randomizzati – prima dell’angio-TC coronarica, per evitare bias di selezione – per ricevere un trattamento di tipo invasivo o conservativo. I primi sono stati sottoposti a una procedura di rivascolarizzazione in aggiunta alla terapia medica ottimale mentre i secondi sono stati sottoposti alla sola terapia medica e venivano reindirizzati verso l’opzione interventistica solo in caso di fallimento della strategia conservativa.

Per quanto riguarda l’endpoint primario, al follow-up medio di 3,2 anni non è emersa alcuna differenza significativa tra i due approcci (Adjusted HR: 0,93; IC 95%: 0,80 – 1,08; P=0,34). I risultati relativi alla misura composita mostrano però un andamento particolare, con un eccesso di eventi nel gruppo sottoposto a trattamento invasivo nel primi due anni, legato principalmente all’elevata incidenza di infarti peri-procedurali. Una tendenza, questa, che si attenua progressivamente negli anni successivi, fino ad invertirsi.

Ciò è particolarmente rilevante alla luce della definizione di infarto miocardico peri-procedurale utilizzata nello studio, quella proposta dall’americana Society for Cardiovascular Angiography & Intervention (SCAI), la quale indica come soglia critica un aumento dei livelli di troponina cardiaca di 35 volte superiore rispetto al valore di normalità (99esimo percentile URL). Di conseguenza, se si fossero utilizzati i più comuni parametri indicati nella IV definizione universale di infarto miocardico (aumento dei livelli di troponina cardiaca di 5 volte superiore rispetto al valore di normalità), l’effetto sfavorevole associato al trattamento invasivo nella prima parte dello studio sarebbe risultato anche maggiore.

Per quanto riguarda l’endpoint secondario, invece, a 6 mesi il tasso di eventi era del 4,8% nel gruppo sottoposto ad angioplastica e del 2,9% in quello sottoposto a terapia medica, mentre a 5 anni era del 14,2% nel primo gruppo e del 16,5% nel secondo. Il numero di decessi, infine, è risultato pari a 145 e 144, rispettivamente. Nessuna di queste differenze è risultata statisticamente significativa.

Non sono emersi effetti legati al tipo di strategia terapeutica anche in una sottoanalisi del trial ISCHEMIA presentata all’ultimo Congresso dell’American College of Cardiology, tenutosi in formato virtuale dal 28 al 30 marzo, in cui i risultati sono stati stratificati in relazione alla gravità dell’ischemia miocardica.  Anche considerando questo fattore, infatti, non sono emersi benefici associati al trattamento invasivo per la sindrome coronarica cronica stabile (7). Un’altra sottoanalisi ha invece individuato un effetto positivo legato alla rivascolarizzazione, in termini di qualità della vita, ma solo nei pazienti sintomatici (8).

In generale, il trial ISCHEMIA conferma quindi come, nei pazienti stabili con ischemia moderata o severa e coronaropatia confermata con angio-TC, la rivascolarizzazione non porti vantaggi in termini di incidenza di nuovi eventi coronarici, fatali e non, rispetto a una terapia medica ottimale supportata da un monitoraggio dei fattori di rischio e da un’adeguata aderenza terapeutica. L’elevato tasso di successo procedurale e la ridotta incidenza di complicanze peri-procedurali associate alla strategia invasiva non dovrebbero quindi ingannare il cardiologo, il quale dovrebbe sempre optare in prima battuta per una strategia conservativa. Non va dimenticato, inoltre, che la scelta di sottoporre il paziente a una procedura di rivascolarizzazione implica una doppia o tripla terapia antitrombotica nel follow up, con un rischio emorragico che può essere, in alcuni casi, molto elevato.

Fabio Ambrosino

Bibliografia

1. Maron DJ, Hochman JS, Reynolds HR, et al. Initial invasive or conservative strategy for stable coronary disease. New England Journal of Medicine 2020; 382:1395-407.
2. Boden WE, O’Rourke RA, Teo KK, et al. Optimal medical therapy with or without PCI for stable coronary diasease. New England Journal of Medicine 2007; 356: 1503 – 1516.
3. Frye RL, August P, Brooks MM, et al. A randomized trial for therapies for type 2 diabetes and coronary artery disease. New England Journal of Medicine 2009; 360: 2503 – 20515.
4. Xaplanteries P, Fourier S, Pijls NH, et al. Five-year outcomes with PCI guided by fractional flow reserve. New England Journal of Medicine 2018; 379: 250 – 259.
5. Hachamovitch R, Hayes SW, Friedman JD, et al. Comparison of the short-term servival benefit associated with revascularization compared with medical therapy in patients with no prior coronary artery disease undergoing stress myocardial perfusion single photon emission computer tomography. Circulation 2003; 107: 2900 – 2907.
6. Gada H, Kirtane AJ, Kerejakes DJ, et al. Meta-analysis of trials mortality after percutaneous coronary intervention compared with medical therapy in patients with stable coronary heart disease and objective evidence of myocardial ischemia. American Journal of Cardiology 2015; 115: 1194 – 1999.
7. Maron D. Relationships of ischemia severity and coronary artery disease extent with clinical outcomes in the ISCHEMIA Trial. Presented at ACC.20/WCC.
8. Spertus JA, Jones PG, Maron DJ, et al. Health-status outcomes with invasive or conservative care in coronary disease. New England Journal of Medicine 2020; 382: 1408 – 19.